Con molto piacere pubblichiamo una riflessione di Dina sulla pragmatica e l’importanza di integrarla a lezione di italiano, offrendoci un esempio di lavoro con gli studenti. Grazie ancora Dina per averla voluta condividere con noi!
Uno dei libri più interessanti che ho letto di recente si intitola “Insegnare la pragmatica in italiano L2”, Carocci Editore.
Le autrici, Elena Nuzzo e Phillysienne Gauci, presentano l’argomento facendo riferimento a un gran numero di studi e ricerche che affrontano la tematica secondo una prospettiva filosofica, comparativa, acquisizionale e didattica.
È per me impossibile riassumere in modo esaustivo il ricco e interessante contenuto del libro e quindi preferisco soffermarmi sulle cose che hanno maggiormente catturato la mia attenzione di insegnante, portandomi a riflettere e ad elaborare nuove pratiche che ho poi introdotto nel mio agire quotidiano in classe.
Per prima cosa vorrei mettere alcuni punti fermi, acquisiti durante la lettura:
- Quasi tutti gli enunciati hanno una loro specifica FORZA ILLOCUTIVA, anche se minima e impercettibile.
Detto più semplicemente, non ci sono enunciati neutri perché, ogni volta che parliamo, cerchiamo anche di “fare” qualcosa, di raggiungere uno scopo pragmatico: chiedere, ordinare, rifiutare, consigliare, promettere…. Queste sono solo alcune delle cose che facciamo quando parliamo, persino quando sembra che stiamo semplicemente dando un’informazione.
Per esempio un enunciato dal valore descrittivo come “Lo zucchero è qui”, contiene in sé un invito implicito a servirsene.
O almeno la pensano così i filosofi del linguaggio John Austin, John Searle e Paul Grice, ed io sono d’accordo con loro (modestamente! 🙂 )
- Grice in particolare va ancora più a fondo nella questione e chiama IMPLICATURE quegli enunciati che intendono comunicare qualcosa di diverso da quello che dicono.
Per esempio se sono in fila alla posta e uno mi passa avanti, prima di trasformarmi nell’Incredibile Hulk (se c’è una cosa che mi urta è proprio chi tenta di saltare la fila!) dirò qualcosa del tipo:
[1] Rispetti la fila, per favore.
Ma se voglio essere meno esplicita, posso dire:
[2] C’è sempre chi fa il furbo.
Quest’ultima è appunto considerata un’implicatura in quanto lo scopo che voglio ottenere non è espresso chiaramente, ma è lo stesso di [1]
- Per comprendere il secondo enunciato è sicuramente necessario un maggiore sforzo interpretativo da parte del mio destinatario, sforzo che Grice chiama PRINCIPO DI COOPERAZIONE.
Per chi insegna italiano agli stranieri è facile comprendere che questo principio di cooperazione può funzionare bene tra parlanti nativi (e neanche tanto!), ma tra un parlante nativo e uno straniero, le cose si complicano a tal punto che si rischia l’intercultural misunderstanding (scusate l’inglese) ossia un corto circuito comunicativo che nel peggiore dei casi può far guastare amicizie, amori nascenti, trattative diplomatiche e commerciali, e chi più ne ha, più ne metta.
Quindi la domanda retorica è: quanto è importante trattare in classe l’aspetto pragmatico della lingua?
Generalmente siamo abituati a sillabi datati e collaudati in cui le funzioni comunicative vanno a braccetto con la grammatica, ma il livello di attenzione sull’aspetto pragmatico della lingua può ancora essere innalzato. Questo almeno è quello che sostengono Nuzzo e Gauci, e ancora una volta mi trovo d’accordo, modestamente! 🙂
Ma come portare la pragmatica in classe?
Sicuramente io non sono in grado di dare una risposta chiara ed esaustiva. Solo per la cronaca, sul mio comodino c’è un volume di Elisabetta Santoro e Ineke Vedder dal titolo “Pragmatica e interculturalità in italiano lingua seconda”, Franco Cesati Editore. Secondo la quarta di copertina, il testo tratterebbe proprio dell’incontro tra teoria pragmatica e pratica didattica ma, ahimé, è ancora immacolato e tale resterà probabilmente ancora per molto tempo.
Intanto, però, posso raccontare una delle cose che ho cominciato a fare in classe sulla base degli stimoli che mi ha offerto il volume di Nuzzo e Gauci.
Per facilità mi rivolgo a classi dal livello A2 in su, magari nella seconda metà della lezione, magari riagganciandomi al racconto di vita reale di uno studente in contesto L2, magari quando la classe ha imparato a conoscermi e si fida di me. La domanda che rivolgo ai miei studenti è questa: “Immaginate di essere italiani e di condividere l’appartamento con un altro italiano. Come gli direste che il volume del suo stereo è troppo alto? Si tratta in sostanza di una protesta e/o richiesta”.
Generalmente gli studenti rispondono con enunciati molto lineari e diretti del tipo “Scusa, il volume è troppo alto” o “Puoi abbassare il volume per favore?”. Lascio che formulino liberamente tutte le loro ipotesi e le scrivo alla lavagna così come sono. Capita spesso che abbiano dei dubbi sulla correttezza formale delle loro frasi. Spesso si confrontano tra di loro o mi chiedono spiegazioni in merito. È chiaro che tutta la loro attenzione è rivolta alla… GRAMMATICA!
Solo quando hanno esaurito tutte le loro ipotesi propongo il “mio” enunciato, ripreso da Nuzzo e Gauci, naturalmente:
“Non è un po’ altina?”
Di fronte a tale enunciato, tra gli studenti c’è spesso uno scambio di risatine. Di solito quello che li sorprende è l’uso della negativa e dell’aggettivo alterato ma naturalmente l’effetto sorpresa dipende da tanti fattori, compresa la lingua madre degli studenti.
Lascio quindi che gli studenti discutano in plenaria sulla differenza pragmatica tra le loro versioni e la mia, e generalmente arrivano alla conclusione che il mio enunciato è meno invasivo rispetto ai loro, che invece potrebbero essere percepiti come proteste troppo dirette o ordini quasi perentori, causando forse una reazione un po’ acidula da parte del destinatario.
Le ragioni della cortesia.
È questo il titolo del paragrafo 1.3 del volume di Nuzzo e Gauci, paragrafo in cui ci si chiede perché ci si debba affannare nella ricerca di enunciati elaborati, magari farciti di implicature, quando invece basterebbe una frase semplice, esplicita e grammaticalmente corretta; per intenderci, una di quelle che un qualsiasi studente sarebbe in grado di produrre.
Brown e Levinson dicono che lo facciamo perché cerchiamo di mitigare l’aggressività di fondo che ogni enunciato potrebbe esprimere se usato nella sua versione basica, soprattutto quando formuliamo una richiesta. Più in generale Brown e Levinson definiscono la ricerca della cortesia come un lavoro incessante che mira a tutelare la faccia del parlante e spesso anche quella del destinatario.
A questo proposito i due studiosi distinguono tra:
- faccia positiva: rappresenta la nostra volontà di essere accettati dalla comunità;
- faccia negativa: rappresenta il nostro bisogno di autonomia e libertà.
Per esempio una critica rappresenta una minaccia per la faccia positiva del ricevente, ma può costituire anche una minaccia per la sua faccia negativa. Scendendo più sul pratico, se vedo qualcuno che parcheggia abusivamente nel posto degli handicappati, gli posso dire: “guardi che non può parcheggiare qui”. Oltre a farlo sentire in difetto rispetto alle regole della civile convivenza, mettendo quindi in discussione la sua faccia positiva, il mio enunciato sottintende anche un ordine dal valore implicazionale (“Sposta la macchina, cretino!”) che mette alla prova il libero arbitrio del mio incivile destinatario, minando così anche la sua faccia negativa.
Ma ora ritorniamo al mio operato in classe e al “mio” enunciato sul volume dello stereo.
Dopo che gli studenti hanno riflettuto sul fatto che il mio enunciato è stato concepito in quel modo contorto anche per tutelare la faccia negativa del destinatario e sul fatto che la cosa va a mio vantaggio (se riesco ad evitare il conflitto aperto, ho più possibilità di raggiungere il mio obiettivo) generalmente continuo invitando i miei studenti a riflettere. Metto in atto questa fase di riflessione attraverso delle frasi-esempio da me prodotte, sull’uso dei MODIFICATORI, ossia quegli strumenti linguistici che, benché superflui da un punto di vista grammaticale e semantico, agiscono sulla forza illocutiva dell’enunciato scongiurando il tanto temuto intercultural misunderstanding.
Tra i modificatori più comuni e inflazionati ci sono i classici “per favore” e “scusa”.
Ma possono essere usati anche altri modificatori come per esempio il banale pronome “mi”; c’è infatti una differenza tra le seguenti frasi:
[1] Per favore, può cambiare una banconota da 10€
[2] Per favore, mi può cambiare una banconota da 10€
Benché entrambe siano corrette da un punto di vista formale, in [2] l’utilizzo di quel “mi” dà un tono quasi affettivo alla mia richiesta, facendo capire al destinatario l’importanza che ha nella mia vita quel compito per cui l’ho scelto. Probabilmente grazie a quel “mi”, il destinatario si sente più importante perché investito di un potere, e quindi forse sarà più propenso ad aiutarmi. Ecco dunque che utilizzando l’enunciato [2] potrei avere maggiori probabilità che mi cambi la banconota. Insomma, è tutto un gioco sottile di forze che è meglio non ignorare se voglio che l’interazione con i miei simili sia efficace e positiva.
Nuzzo e Gauci fanno inoltre notare che spesso persino studenti con una buona competenza linguistica non sono pienamente coscienti degli strumenti linguistici che hanno a loro disposizione per dare efficacia pragmatica ai loro atti comunicativi. Per esempio la conoscenza dichiarativa dei verbi modali e del condizionale, non garantisce che producano un enunciato del tipo “potresti abbassare la musica per favore?”.
L’insegnante dovrebbe quindi agire in modo tale da risvegliare le coscienze (e le conoscenze) degli studenti in direzione pragmatica.
Ma permettetemi di ritornare per l’ultima volta alla mia classe e al “mio” enunciato. Dopo aver portato gli studenti a riflettere abbondantemente sull’importanza pragmatica della cortesia, e dopo aver “dissotterrato” tutti i modificatori linguistici che possono utilizzare per aggiustare la forza illocutiva di un enunciato, li faccio passare all’azione utilizzando l’attività n.11 di Ricette per Parlare, Alma Edizioni, chiamata “Cosa dici?”. Pesco delle situazioni comunicative classiche che gli studenti già stra-conoscono e che hanno già abbondantemente manipolato in passato. Per esempio: “sei al ristorante, sul tavolo non c’è il tovagliolo, lo chiedi al cameriere”.
Facendoli lavorare in gruppo, chiedo di formulare varie ipotesi su come la frase potrebbe essere resa alla luce di quanto detto. Concludo con un confronto in plenaria in cui gli studenti presentano le loro ipotesi. In questa fase posso dare dei feedback sotto forma di gioco, per esempio prendendo io il ruolo del cameriere che reagisce in modo diverso a seconda dell’efficacia pragmatica della richiesta del cliente-studente, cosa che spesso provoca grande ilarità nella classe.
Ho notato che gli studenti si incuriosiscono molto quando tratto la pragmatica, apprezzano questa attività e la nuova prospettiva con cui la vivono. La loro preoccupazione principale non è più soltanto la GRAMMATICA. Sembra che allarghino le loro vedute, o almeno questo è ciò che mi dicono. Ed è quello che io spero.
Naturalmente tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. Come fanno notare anche Nuzzo e Gauci, molto difficilmente uno studente potrà acquisire una competenza pragmatica pari a quella di un madrelingua, perché in essa convergono un’infinità di nodi linguistici, psicologici e culturali. E non è neanche detto che sia un obiettivo a cui ambire. Ma è sicuramente importante invitare gli studenti a riflettere sull’importanza di questo tipo di competenza.
Io ho cominciato da poco a introdurla in classe in modo più esplicito e sistematico e ho voluto condividere con voi le mie letture recenti e la mia recente esperienza.
Buon lavoro a tutti! 🙂
…………
Conosciamo meglio Dina!
Da bambina sognavo di fare l’archeologa, ma poi le cose sono andate diversamente. Con due genitori impiegati in una compagnia aerea, per me viaggiare e stare a contatto con lingue e culture diverse era la normalità. Quasi per inerzia ho frequentato il liceo classico e poi Lingue all’università. Ma dopo la laurea non avevo ancora le idee chiare e sono passata da un lavoro all’altro, finché un giorno un’amica mi ha parlato dell’italiano a stranieri. L’idea l’ho sentita subito mia, perché, vista la mia formazione e i miei vissuti, mi sembrava la cosa più naturale che potessi fare. E così, malgrado avessi una figlia piccola, mi sono messa a studiare e continuo ancora oggi perché penso che uno degli aspetti migliori di questo lavoro sia proprio il fatto che ti dà la possibilità di migliorarti constantemente.
Da quando ho cominciato, quasi dieci anni fa, ho lavorato in diversi contesti, dalle scuole private alle università. Oggi ho il mio giro di lezioni private, collaboro con la Società Dante Aighieri per la correzione delle prove PLIDA e sono formatrice Ditals. La cosa che mi piace di più di questo lavoro? E’ che mi permette di viaggiare senza viaggiare.
Proprio oggi una studentessa B1 si è trovata di fronte ad una frase di questo tipo:
“Fa caldo, io quasi quasi mi farei un bel tuffo”.
Le sue domande sono state:
1. Che significa “quasi quasi”?
2. Perché quel “mi”?
La locuzione “quasi quasi” spesso non è facile da spiegare agli studenti, ma alla luce della PRAGMATICA e della teoria degli ATTI LINGUISTICI mi sono sentita di rispondere che noi italiani diciamo “quasi quasi” quando in fondo stiamo INVITANDO l’interlocutore a fare qualcosa insieme a noi. O almeno questo mi sembrava il caso di questa frase: un invito molto soft che se non viene raccolto passa inosservato e così la faccia di entrambi è salva.
Post davvero interessante! Ottimo spunto per introdurre la pragmatica in classe, grazie per la recensione e per la condivisione dell’attività fatta in classe!
Post molto stimolante. In effetti la pragmatica è un po’ la cenerentola dei sillabi di italiano per stranieri. Sono d’accordo con te, dovremmo tutti darle più attenzione. Grazie Dina.