Segni particolari.

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Ritrovo, dai miei archivi, un articolo pubblicato su una rivista autarchica e diffusa brevi manu chiamata BAD. Si tratta di un articolo piuttosto scorretto e cattivo, ma molto vero.

E’ del 2002, ma, credo, non datato. La firma è di un fantomatico Jorge Gabriel Bigballs.

Non sapremo mai chi si cela dietro tale pseudonimo…

Segni particolari

“Che nome gli metterò?” disse fra sé e sé.
“Lo voglio chiamar Pinocchio.
Questo nome gli porterà fortuna.
Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi:
Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi,
e tutti se la passavano bene.
Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina.”

CARLO COLLODI

E già che quando si ha la ventura di appartenere alla poco fortunata categoria degli Insegnanti di Italiano per Stranieri può capitare, nell’arco di un anno solare, di imbattersi in un numero davvero considerevole di allievi. Diciamo approssimativamente dai due ai trecento.

Io non sopporto i colleghi – sparuti, per la verità. E anche clandestini – che parlano male dei propri studenti quando questi giovani imberbi, che per lo più assumono il ruolo e le fattezze di ricettacoli ormonali a caccia di eventi vitali, creano un qualche tipo di problematica che non permette alla “classe” di sviluppare le proprie potenzialità; insomma: quando rompono.

Io in questi casi propendo per un immediato, diretto, perentorio e liberatorio “e vattene fuori!” di cinematografica memoria. Che si vada poi, il rompiballe, a lamentare in direzione! Il rimprovero – a me! – è assicurato, ma vuoi mettere la soddisfazione!

Al contrario adoro disquisire e soffermarmi anche con dovizia di particolari sugli aspetti esteriori di queste meteore che transitano spesso velocissime, altre volte con stanchezza, solo in poche circostanze con sostanza, nella nostra vita.

Aspetti esteriori, dicevo. Sì: i capelli, le scarpe, l’orologio, il seno, l’incèdere…

Li si potrebbe chiamare “segni particolari”. Sono quelli che in un modo o in un altro restano indelebilmente vergati nella carta d’identità che di ognuno dei nostri studenti siamo nostro malgrado obbligati a redigere e che ad un certo punto si va a depositare inspiegabilmente nell’archivio della nostra memoria di insegnanti. E sono proprio quelle cicatrici, quegli occhi, quelle camicie, quei tatuaggi, quelle labbra dipinte, nonché quei culi, quei bicipiti, quelle scollature che hanno il potere di risbucare fuori ad anni di distanza chissà dove, chissà da dove e chissà perché e che si portano appresso tutto il resto della persona da un ricordo che sembrava non esistere.

Ora, io sono sicuro che questa giovane e seriosa fanciulla, che in questo momento è seduta davanti a me (perché non c’è momento migliore della lezione per scrivere sui propri studenti), quando lascerà questa classe mi si ficcherà in qualche zona nascosta della memoria e fra anni risbucherà fuori ed io in aula insegnanti dirò: “Roberto, ma ti ricordi di Auricchio?” Saranno queste le mie parole. Perché questo è il mio identikit sintetico che mi riporta alla sua figura intera, e non solo a quella esteriore, anche alla sua capacità di apprendimento, alla sua interlingua, alla giovialità, alla simpatia.

Eccola. È qui di fronte a me che lavora insieme a Sfinge. La descrivo in diretta. Da sotto: scarpette nere da collegiale, col laccetto, calzini fucsia, gambe nude bianchissime e grosse, vestitino estivo bianchissimo, corto che lascia intravedere un paio di mutandine rosse; sopra il vestito un minuscolo giacchino di cotone blu agganciato con un solo bottone a coprire un po’ di più il seno e le cicce; faccione simpatico non sgradevole e capelli biondissimi lunghi e appesi. Un auricchio! L’abbigliamento, il colore della pelle, la stazza, ma anche la simpatia, la giovialità. Ogni aspetto concorre a creare la metafora.

Vorrei difendere la considerazione del fatto che questa non è mancanza di rispetto nei confronti dei nostri allievi. Denota casomai una grande attenzione al nostro lavoro, che vista la retribuzione non possiamo non considerare una missione (per conto di Dio). L’abilità e anche il piacere e il divertimento di cogliere i segni particolari immediatamente visibili e distintivi di ogni studente sono infatti caratteri propri dell’insegnante di italiano per stranieri che è a suo modo un creatore. Un demiurgo che plasma una materia che fuori dal suo ambiente comunicativo non è in grado di rivelarsi e porta questa materia a esprimersi persona completa in una cultura e in una lingua diverse da quella con cui è nata ed è cresciuta. È giusto e utile che questa materia piena di potenzialità sia considerata a tutti gli effetti una persona tale e quale a noi e alle altre che popolano questo mondo. Come tale in questo mondo ha bisogno di un battesimo e di un nome. Madre (o padre) e sacerdote non può essere che essere l’insegnante.

E se l’insegnante non lo sa fare in modo innato, come sarebbe consigliabile, lo deve imparare.

Almeno l’abilità (se non c’è il talento) è fondamentale: è necessaria come saper rispondere nel modo migliore – cioè in modo esauriente non ridondante chiaro non frustrante e anzi incoraggiante – ad una domanda sul pronome relativo soggetto o sull’uso del condizionale passato o ad un quesito sul significato della parola “addirittura”. Ci si allena, si prova, si sbaglia, e piano piano si impara a farlo. Sembra impossibile ma il miracolo accade. In terra.

La ragione portante dell’importanza fondamentale di questo troppo spesso sottovalutato aspetto intrinseco più che pertinente all’atto dell’insegnamento sta tutto in un lemma:

affettività.

Saper rispondere ad una domanda è infatti importante tanto quanto saper instaurare un rapporto insegnante-studente che metta quest’ultimo in una situazione psicologica di piena fiducia.

Sappiamo tutti che ricordare i nomi di tutti i componenti di una classe non è facile, considerate le provenienze più disparate e nondimeno la mobilità dei singoli: dal 1° al 2° livello, dal 2° al 4°, “domani te ne mando due!”, “stamattina te ne arriva uno!”, “ne ho 15, non ho più posto, ti devo mandare qualcuno se ne arrivano a me!”, “chi finisce questo venerdì?”, “quanti me ne arrivano lunedì di nuovi?”.

Insomma, nel nostro lavoro è un perenne terribile primo giorno.

Copio ora qui i nomi dal mio registro: Adi, Wakako, Ligia, Seung Eun, Dong Yeon,Eva,  Dajana, Kumiko, Nobu, Won, Seung Kwan, Pyò. Associare questi segni e suoni disarticolati a dei volti di persone non è la cosa più semplice di questo mondo. Soprattutto quando si hanno quattro classi: una il lunedì, mercoledì, venerdì mattina, una il martedì e il giovedì mattina, una il lunedì, mercoledì, venerdì pomeriggio, una il martedì e il giovedì pomeriggio. L’alternativa è chiamare ognuno “tu” o evitare di chiamare. Si può fare per un po’, ma per quanto?

Il procedimento che io seguo è abbastanza semplice. Nel registro sopra il nome scrivo il segno particolare, il codice identificativo di ogni studente. A volte può essere molto semplice come Occhiali o Alto. Oppure è più curioso, come ad esempio appunto Sfinge o Armadio o Bin laden. Altre volte sforo in esclamazioni tipo Che tette! o cose del genere di Ma ci fa o ci è? o trivialmente e volgarmente in un maschilista ma schietto Cozza.

Quindi, dopo aver completato la redazione di ogni carta d’identità con i segni a me distintivi, vado avanti tranquillo. Prima di chiamare un dato studente basta andare a vedere vicino quale nome si riferisce a quella immagine e il problema è risolto.

Chi legge, spero, converrà con me: sentirsi dire da una persona “tu come stai?” è psicologicamente diverso dal sentirsi dire “Lucia, come stai?”.

Beh, la lezione continua e Auricchio, mi chiama. Guardo il registro.

“Un attimo Eva, finisco la frase e sono da te”.

Jorge Gabriel Bigballs 002


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