Nell’attesa del laboratorio di domani su come lavorare in una classe multietnica (un’attesa tutta mia…), vi propongo un articolo di Christopher Humphris che ho letto e riletto con attenzione in questi ultimi giorni. L’articolo è pubblicato nella pagina degli articoli dei bollettini del sito della Dilit.
Gli stranieri a scuola – qualche considerazione di base
Christopher Humphris
La questione di ragazzi stranieri nelle classi della scuola normale si presenta sempre più frequentemente. In discussioni con maestri e docenti della scuola elementare, media inferiore e media superiore che cercano soluzioni, avverto un aspetto centrale del loro modo di affrontare la questione. C’è una tendenza a vedere lo straniero in classe un po’ come si vede il disabile in classe: costituisce, cioè, da una parte un freno ai ritmi “normali” di lavoro e dall’altra una persona in difficoltà, bisognosa di aiuto.
Ora, evitando di entrare nel merito dell’utilità o meno di vedere il disabile in questi termini, vorrei dire qualcosa, invece, riguardo allo straniero.
Il ragionamento dei più è grosso modo il seguente. Visto che è normale rivendicare un insegnante di sostegno per il disabile, è logico rivendicare che ci sia un insegnante che si occupi dello straniero (magari con lezioni di lingua organizzate in un’altra aula in contemporanea con le lezioni normali). L’assenza dell’elemento che frena i ritmi del lavoro permetterà, appunto, di riprendere i ritmi desiderati. In più si può avere la coscienza tranquilla perché lo straniero sta imparando la lingua (che poi, alla fine gli permetterà di seguire il ritmo delle normali lezioni).
In molti casi, però, non è possibile ottenere questo tipo di soluzione. Paradossalmente, è in questi casi che, secondo me, il dialogo con gli insegnanti diventa più interessante. Prima, però, di lasciare alle spalle la soluzione ipotizzata vorrei comunque fare qualche osservazione in merito. Penso che considerarla una “soluzione” sia esagerato. Questo perché per lo straniero già padrone di una lingua europea ci vogliono oltre 500 ore di studio di italiano per raggiungere un livello soddisfacente per seguire i normali ritmi di studio della scuola (livello B2 secondo il Quadro comune europeo di riferimento per le lingue). E’ realistico pensare che la scuola possa trovare il finanziamento per un simile numero di ore di lezioni di italiano L2? Poi, bisogna mettere in conto che la maggior parte degli stranieri che entrano nella scuola italiana non è padrone di una lingua europea; e questo significa che il numero di ore necessarie per raggiungere un livello soddisfacente va ben oltre 500 e può in certi casi avvicinarsi a 1000. Realisticamente, al massimo si potrebbe parlare di un “contributo” alla soluzione. Comunque sia, se queste ore sono organizzate in contemporanea con le lezioni normali, ogni ora passata nella lezione di italiano L2 è un’ora persa di contatto con il programma di studio che i compagni in classe stanno seguendo: una situazione paradossale che aumenta il ritardo che lo straniero accusa rispetto agli altri.
Quando, invece, non è possibile organizzare lezioni di italiano L2 gli insegnanti sono spesso più interessati a cercare modifiche nel loro modo di fare lezione. E qui le cose diventano interessanti.
Allora, che c’è che andrebbe modificato nel loro modo di fare lezione? Non parlo di tutti gli insegnanti, ma di gran parte di loro. Diciamo la verità: nonostante moltissimi docenti in Italia abbiano ormai superato un concorso in cui hanno sostenuto a livello teorico l’utilità del lavoro di gruppo, in pratica predomina nella maggior parte delle scuole italiane la modalità tradizionale “spiego e interrogo”.
Come mai? Uno dei motivi è certamente che l’insegnante crede di poter controllare meglio le informazioni che arrivano ai ragazzi se le da lui. Dopo tutto, lui è esperto nel dosare gli elementi da trasmettere, sa ripetere quando è il caso, sa modulare la voce per mantenere l’interesse, sa quando conviene accompagnare la spiegazione con un disegno alla lavagna, sa creare la domanda giusta al momento giusto per coinvolgere quel ragazzo che si è distratto un momento, ecc., ecc.. Spiegare a scuola è un arte, e l’insegnante un artista.
Perché, allora, nei concorsi bisogna criticare questa modalità? Quali sono le argomentazioni teoriche che rivelano i suoi limiti? Vediamone alcune una per una.
L’eterogeneità dei livelli di competenza
Se l’insegnante deve spiegare, per esempio, perché esistono i vulcani, dovrà tenere conto di quanto i ragazzi sanno già. Tutti gli insegnanti sono consapevoli di questo. L’insegnante che non ne tiene conto rischia di trovarsi davanti ad una classe che, non riuscendo a seguire il discorso, lasciano che la mente vada altrove. Con conseguenze più o meno gravi a secondo dell’indice di aggressività presente nella classe.
Ma, è vero che i ragazzi iniziano l’ascolto della lezione tutti allo stesso livello? La risposta non può che essere negativa. Per me è già difficile immaginare due diversi esseri umani con esattamente lo stesso livello di conoscenza riguardo ad un’area di sapere, figuriamoci una classe intera! Penso che, in realtà, l’insegnante, consapevolmente o no, faccia una specie di “calcolo della media”. Cioè, quando spiega, tara la spiegazione sullo studente medio. Così, si tengono entro margini tollerabili sia la noia (per chi sa di più) sia la frustrazione (per chi sa di meno).
La critica, invece, dice che questi margini non sono tollerabili. Si ha apprendimento efficace solamente se le nuove informazioni possono essere assimilate alle conoscenze già possedute. Tale assimilazione genera, come ci insegna Piaget, l’accomodamento, ossia la modifica degli schemi mentali preesistenti (vedere Flavell). Chi non è ancora pronto per le nuove informazioni non le può assimilare e quindi non può elaborare nuovi schemi mentali. Semplicemente non apprende. O piuttosto, il meglio che può fare è cercare di memorizzare mnemonicamente per poter superare l’interrogazione successiva.
Certi insegnanti, consapevoli di questa incongruenza, sostengono che l’insegnamento ideale sia “one-to-one”, ossia un insegnante per ogni allievo. O, male che vada, un insegnante con un piccolo gruppo di allievi.
L’eterogeneità degli stili di apprendimento
Non tutti gli alunni affrontano le nuove informazioni nello stesso modo. Jerome Bruner, per esempio, ci insegna che c’è chi riesce ad afferrare le nuove informazioni più facilmente tramite una rappresentazione attiva (mediante un insieme di azioni, effettuate o immaginate), c’è chi invece preferisce una rappresentazione iconica (mediante disegni o foto, visti o immaginati), e c’è chi infine sta più a suo agio con una rappresentazione simbolica (per esempio, proposizioni logiche espresse con la lingua). Altri teorici distinguono fra chi ha una preferenza per il canale visivo, chi invece ha una preferenza per il canale auditivo, e chi invece preferisce il canale cinestetico-tattile. Altri ancora parlano dell’Attivo, del Riflettitore, del Teorico, e del Pragmatico. C’è chi invece divide gli apprendenti in dipendenti dal campo e indipendenti dal campo.
La critica della spiegazione classica è che essa favorisce un tipo di alunno, lasciando agli altri poco tempo per rielaborare le informazioni in altre forme più adatte alle loro esigenze.
Anche di fronte a questa critica viene proposta la stessa soluzione soprammenzionata: ridurre drasticamente il numero di allievi.
Il ruolo dello studente
Durante la spiegazione che cosa deve fare lo studente? Deve cercare di ascoltare con attenzione, senza distrarsi neanche un attimo, e fissare in testa concetti non semplici, così come vengono espressi. E lo dovrebbe fare senza modificarli, senza filtrarli, senza rielaborali in un modo personale. L’assioma è che questo sia possibile. Chi non lo fa, non è stato attento, non è un bravo studente.
Douglas Barnes, invece, ci insegna che lo studente che si pone quesiti impara di più e meglio. Lo studente che fa ipotesi, che fa affermazioni esploratorie, che mette la sua comprensione in discussione, impara di più e meglio. Insomma è il suo parlare, durante o dopo l’ascoltare, che garantisce un buon apprendimento.
La soluzione soprammenzionata viene di nuovo evocata: questo tipo di dialogo con gli studenti è più facile se ci sono pochissimi studenti.
Che fare secondo me?
Il piccolissimo gruppo di studenti con un insegnante sembra a prima vista una buona soluzione per rispondere alle critiche sopraelencate. E’ curioso che molti di coloro che sognano una soluzione del genere non vedono di buon occhio la mentalità delle classi agiate dell’inizio del novecento. Ma in realtà, era questo il loro modo di garantire l’educazione dei figli: potevano permettersi precettori personali e usufruivano a pieno dei loro servizi.
Si potrebbe dipingere coloro che sognano una soluzione del genere come utopisti: nessun governo reale investirebbe sufficienti soldi per stipendiare tutti gli insegnanti necessari alla sua realizzazione.
Ma in realtà, a mio avviso, tale soluzione, anche se può rispondere alle critiche sopraelencate, non sarebbe buona, in quanto rimane ancora una critica da affrontare, critica che è, secondo me, più grave delle altre.
Torniamo nella classe odierna, dove c’è uno o più stranieri. Anzi, prendiamo il caso (forse ormai il caso “normale” nell’Italia di oggi) dove c’è uno straniero. (Comunque sia, tutto il discorso che segue si applica anche se ce n’è più di uno.) L’insegnante avrà elaborato il suo metodo di insegnamento nel passato. In un’epoca, cioè, in cui non c’erano stranieri in classe. Con lo straniero in classe lo stesso insegnante è più stanco alla fine della giornata. Perché? Perché è diviso fra due obiettivi. Il primo: spiegare ad un ritmo che, tutto sommato, “funzionava” prima quando la differenza dei ritmi di comprensione fra i diversi ragazzi sembrava non abissale. E il secondo: far sì che lo straniero, che ha un ritmo molto più basso rispetto agli altri, apprenda anche lui (e in più, evitare che si senta isolato).
Decentralizzare la comunicazione
Immaginiamo una prima modifica della lezione. La spiegazione, questa volta tarata non più sullo studente medio bensì sul primo della classe, dura poco tempo (un quarto del tempo del normale). I ragazzi vengono avvertiti anticipatamente che non potranno capire tutto: devono semplicemente cercare di capire ciò che possono, niente di più. Subito dopo, l’insegnante fa riorganizzare le sedie in modo che ogni ragazzo abbia direttamente di fronte a lui un compagno. L’insegnante dice agli alunni di raccontare al compagno ciò che pensano di aver capito dell’argomento spiegato. L’insegnante poi si siede in disparte.
Quando l’insegnante avverte che una coppia ha finito (cioè che non parla più o parla di altro), riprende la sua centralità, interrompe il lavoro di tutti e si offre di rispondere a qualsiasi domanda in merito.
Prima di procedere, cerchiamo di descrivere ciò che è successo durante i (dieci?) minuti in cui gli studenti hanno parlato in coppie. Innanzi tutto possiamo individuare 2 tipi di coppia: un tipo in cui i due studenti hanno lo stesso livello di comprensione dell’argomento (tipo simmetrico), e l’altro in cui uno degli studenti ha capito di più dell’altro (tipo complementare). Nel tipo simmetrico, anche se il livello è uguale, il modo di parlarne non sarà esattamente uguale, il modo di organizzare i concetti non sarà esattamente uguale, certi aspetti dell’argomento saranno più chiari ad uno che all’altro e vice versa. Nel tipo complementare è solo durante la chiacchierata che scoprono che uno ha capito più dell’altro, e poi non è detto che colui che ha capito di meno non abbia colto un aspetto che all’altro non è apparso chiaro. Comunque sia, colui che ha capito di meno (si dice che occupa il polo “negativo” della coppia) impara da chi ha capito di più (colui che occupa il polo “positivo) e, per di più, lo impara ad un ritmo (visto che sta parlando con un pari grado e non con l’insegnante) che lui stesso può controllare (interrompendo l’altro quando vuole ed esigendo chiarimenti). Il lettore potrebbe obiettare che colui che ha capito di più sta perdendo tempo, ma, in realtà, la necessità di spiegare ad un altro ciò che ha capito serve anche a chi spiega perché lo aiuta ad organizzare meglio la sua comprensione e a consolidarla.
Per quanto riguarda lo straniero, è molto probabile che occuperà il polo “negativo” in una coppia complementare.
Per tutti gli studenti è un’occasione di rielaborare la propria comprensione, di personalizzare i nuovi concetti.
Torniamo alla lezione. Quando l’insegnante si offre di rispondere a domande avremo una situazione molta diversa dalla spiegazione tradizionale. Una situazione con diversi vantaggi, direi. Innanzi tutto, ogni domanda fornisce delle informazioni preziose all’insegnante. Il contenuto e la forma della domanda, che lasciano intuirne le presupposizioni, permettono all’insegnante di avere un’idea piuttosto precisa del punto in cui sta la comprensione di chi fa la domanda. Di conseguenza, saprà dosare le informazioni che ritiene mancanti in modo appropriato, almeno per lo studente in questione. Saprà anche dare la precedenza alle domande poste da chi ha capito di meno, trattando per ultime le domande dei primi della classe. Comunque sia, anche al momento di rispondere alle prime domande, il divario fra il primo e l’ultimo della classe è meno radicale rispetto all’insegnamento classico. Questo perché l’ultimo ha imparato qualcosa dal suo compagno durante la consultazione in coppie. (Tornerò più avanti su questo punto.) L’altra differenza importante rispetto all’insegnamento classico è che sono gli studenti a determinare il flusso delle informazioni (questo a condizione che l’insegnante si limiti a rispondere alle domande, senza cioè utilizzare la domanda semplicemente come una scusa per riprendere la spiegazione monologica come se fosse una lezione classica.) In più, visto che ciò che viene detto è determinato dalle loro domande, gli studenti sono ascoltatori più interessati e quindi più attenti.
Qual è l’obiezione più frequente a questo tipo di proposta? Di solito, è di tipo pratico: nella scuola pubblica non si possono riorganizzare la disposizione delle sedie. I motivi espressi sono diversi: includono “i ragazzi non vogliono spostarsi”, “i bidelli si lamentano”, “ci vuole troppo tempo”, “i ragazzi si agitano e passa molto tempo prima che si calmino sufficientemente per poter lavorare seriamente”, ecc.. In effetti, la riorganizzazione della disposizione dei mobili non è semplice. Ci vuole un’abilità particolare. Non dimenticherò mai quando, 35 anni fa, stavo a Torino in un teatro tenda già strapieno di gente e ho visto Dario Fo riuscire a far spostare le sedie per far entrare altre 100 persone. Quante volte da allora ho visto altri conduttori di serate cercare in vano di fare cose simili, anche con numeri di persone molto più modesti! C’è chi parlerà di carisma. Io, invece, preferisco parlare di abilità. Nella nostra pratica di formazione di insegnanti, abbiamo visto che l’insegnante classico non possiede questa abilità e abbiamo anche visto che tutti possono impararla. Non è difficile. Ecco come fare:
1. Osservare bene lo spazio-classe così com’è in questo momento.
2. Visualizzare mentalmente come sarà dopo il cambiamento (precisamente chi dovrà muoversi e dove dovrà andare).
3. Spostandosi con leggerezza nell’aula, dare istruzioni semplici e chiare separatamente ad ogni ragazzo che debba spostarsi (esempio “Alzati, prendi la sedia, mettila qui, siediti”).
Con la pratica si può raggiungere il traguardo in meno di due minuti, anche se le prime volte ci vuole di più.
L’altro momento di possibile attrito è quello in cui si deve interrompere la consultazione in coppie. Una tecnica che abbiamo visto che risparmia danni alle corde vocali dell’insegnante e che inoltre gli evita uno stress è la seguente. Si insegna ai ragazzi all’inizio della lezione che quando l’insegnante vuole parlare con loro egli alzerà la mano. Chi si accorgerà della mano alzata dell’insegnante deve smettere di parlare e alzare anche lui la mano. In pratica, all’inizio nessuno si accorge della mano dell’insegnante, poi un ragazzo se ne accorge, smette di parlare e alza a sua volta la mano, poi un altro, poi un altro, le mani si alzano una dopo l’altra, accompagnate da una progressiva abbassamento del volume delle voci. In poco tempo c’è un silenzio totale e l’insegnante può parlare senza alzare la voce. Provare per credere.
Tornare al testo
Immaginiamo ora una seconda modifica alla lezione. Al momento in cui l’insegnante interrompe la consultazione in coppie, non si offre (per ora) di rispondere a domande, bensì fa ascoltare al registratore la stessa spiegazione che ha già fatto. (Per ottenere la registrazione, basta aver lasciato acceso in modalità “registrazione” un registratore portatile durante la prima spiegazione, meglio ancora con un piccolo microfono attaccato alla camicia vicino al collo.)
Gli studenti ascoltano con molto interesse, semplicemente perché ognuno sta confrontando la sua versione con l’originale per vedere quanto distano fra di loro. In più, sta confrontando la versione del compagno con l’originale anche per sapere chi dei due vince le piccole scommesse che spontaneamente si sono fatti durante la consultazione in coppie. Per questo motivo è utile non permettere lo spostamento delle sedie per ascoltare, in modo che ogni studente si trovi seduto fisicamente davanti al compagno con cui ha discusso fino a quel momento. In questo modo, finito l’ascolto, l’insegnante non deve dire altro che “Continuate” e niente di più naturale che ognuno riprenda la conversazione con il compagno, dicendo cose come “Vedi che avevo ragione…” La conversazione questa volta dura normalmente di più, semplicemente perché gli studenti si sentono più sicuri delle loro interpretazioni.
Alla fine di questa fase possiamo caratterizzare la comprensione della classe riguardo al testo (il termine “testo” viene utilizzato qui sia per lo scritto che per il parlato: la spiegazione dell’insegnante è un testo parlato) nella maniera seguente. Innanzi tutto la comprensione dopo il primo ascolto, espressa in punti percentuali rispetto ad una teorica comprensione perfetta, era diversa per ogni studente, e secondo, ora, dopo i due ascolti e le due consultazioni in coppie, la percentuale di ognuno è più alta rispetto a quant’era dopo il primo ascolto.
Offrirsi di rispondere a domande ora avrebbe tutti i vantaggi di prima, più il fatto che la domanda più “elementare” sarebbe meno elementare, semplicemente perché anche lo studente più lento avrebbe una comprensione più alta.
Certo, qualche lettore starà già pensando “Allora, perché non proporre un terzo ascolto prima di rispondere alle domande. I vantaggi saranno ancora maggiori”. Sono d’accordo con loro.
Cambio di compagno
Qualcuno potrebbe obiettare, “E se capiscono fischi per fiaschi?. Anche se in certe coppie questo procedimento può dare buoni frutti, ci sarà sempre qualche coppia che non fa altro che confermare idee erronee, qualche coppia in cui non si fa altro che rinforzare i pregiudizi, i luoghi comuni.” D’accordo, ci vuole un meccanismo per evitare tale fossilizzazione. Eccolo. Prima di far ascoltare la registrazione di nuovo, basta far alzare uno studente su due e farlo spostare di un posto. Così ogni studente avrà un nuovo compagno. L’istruzione a dare alla classe è “Raccontatevi le vostre interpretazioni”. L’uso della parola “interpretazioni” serve ad abbassare eventuali sentimenti di vergogna riguardo alla propria comprensione.
Conclusione
Ritengo che l’introduzione di simili modifiche laddove prevale la spiegazione classica possa a) aumentare l’interesse per la materia insegnata, b) condurre ciascun ragazzo ad avere una percezione di sé più come colui che apprende, meno come colui cui si cerca di insegnare.
Bibliografia
- Barnes, D., From Communication to Curriculum, Penguin Books, Harmondsworth (UK) 1989.
- Bruner, J., Verso una teoria dell’istruzione, trad. it., Armando, Roma 1999.
- Consiglio d’Europa, Quadro comune europeo di riferimento per le lingue, trad. it. La Nuova Italia,
- Milano 2002.
- Flavell, J., La mente dalla nascita all’adolescenza nel pensiero di J. Piaget, trad. it., Astrolabio, Roma 1981.
Grazie d’aver pubblicato questo articolo, credo di inviarlo alla maestra della classe che frequenta mio figlio, forse ne potrebbe prendere spunto
saluti, Dario