Inauguriamo oggi una nuova categoria, dal nome Citazioni.
Non si tratta di singole frasi ma di brani di autori che possono essere buoni spunti di riflessioni e approfondimenti.
Il commento alle citazioni è lasciato a tutti quelli che vorranno dire la loro in proposito.
Si parte da Stephen Krashen!
Gli studenti adulti insistono a volere che si correggano tutti i loro errori, molti avvertono che lo studio della grammatica è molto importante e che si impara a parlare un’altra lingua parlandola.
Certo è difficile per gli insegnanti resistere a questa pressione, specialmente quando fare attività comunicative è talvolta percepito come non professionale, come un segno di ignoranza della grammatica. Bisogna tuttavia rendersi conto che è nostra responsabilità professionale insegnare secondo le proprie convinzioni riguardo a come si impara una lingua.
Gli ingegneri non tengono conto della pubblica opinione quando si tratta di costruire un ponte, e i chirurghi si guardano bene dal permettere alla gente di dire loro come operare.
Stephen Krashen, Why support a delayed-gratification approach to language education?
The Language Teacher, 28 (7), 3-7 (2004).
Ottima la discussione, anche se lunga, molto proficua!
prego. Sono consapevole del fatto che scrivere molto non si addice molto a internet. E me ne scuso, e molto anche, ehm…
………ehm…………
siccome non so da dove iniziare….approfitto intanto per chiedere a Valentina: vista la tua dedizione nelle rispote, perché non scrivi un post parlandoci della tua esperienza di insegnamento? ladylink@ildueblog.it
per il resto mi ci vuole un po’ di tempo per leggere e comprendere tutto, magari anche una stampante 🙂 o magari continuiamo privatamente, se saremo sommerse da altri post…
cmq sia grazie davvero
ll*
Non so se ho risposto a tutto quello che ladylink aveva notato e annotato. Spero di sì. Vorrei aggiungere un’ultima cosa: i miei studenti sono tra i trenta e i sessanta anni. E io ne ho trentacinque. Come dicevo anche prima, a volte sono più conduttrice di un corso che non insegnante. Nel senso che invece di insegnare, cerco più che altro di trasmettere una lingua. E chiedo ai miei studenti che anche a me vegna trasmesso qualcosa. Quindi se hanno qualcosa da ridire possono farlo in qualunque momento, e infatti lo fanno eccome. Precisano quello che dico, correggono le sviste che faccio alla lavagna, a volte dimostrandosi anche pedanti. la pedanteria la metto a posto con l’ironia, ma non la sottovaluto mai, perché tutto quello che viene dagli studenti serve a capire cosa vogliono esattamente da noi. Adattare il proprio metodo alle esigenze di ciascuno non è secondo me sbagliato, se si ha la sufficiente forza e convinzione per fare appunto solo un adattamento del proprio metodo, senza però cambiarlo, ma anche senza dimenticarsi di metterlo sempre in discussione.
Mi capita a volte di far fare degli esercizi in classe dividendo gli studenti in piccoli gruppi. Il primo che finisce lo mando (non sempre, solo a volte, a seconda dei casi) a controllare il lavoro degli altri gruppi. Il primo che guarda per aria incerto, o che borbotta un’idea contraria a quella degli altri compagni di gruppo, lo mando (a volte, non sempre) a cercare qualcuno che condivida la sua idea negli altri gruppi, purché lo faccia in italiano. L’ultimo che rimane imbrogliato nell’esercizio anche se gli altri del gruppo hanno risolto tutto e della loro risoluzione sono convinti, lo mando, se vuole, a sedersi al mio posto, e io mi siedo al suo, così posso procedere alla correzione con i vari gruppi e lasciare lui in pace a cercare di risolvere quello che vuole. Poi magari faccio finta di non avere voglia di andare dal banco fino alla cattedra (che non è una cattedra ma un altro banco, solo in una posizione diversa, e non a caso), e quindi invito qualcuno ad andare a scrivere al posto mio qualcosa alla lavagna. Già che poi si trova alla lavagna, qualora mostri incertezza in quello che sta scrivendo, gli chiedo di domandare al compagno seduto in “cattedra” di aiutarlo. In questo modo il compagno viene reinserito nell’attività della classe, ci scappa sempre qualche risata, gli studenti si rendono conto che si sta bene lì al mio posto, e insomma lo scambio dei ruoli a me sta bene. La disciplina e una certa ripetitività ci devono essere secondo me per imparare una lingua, ma è bene far finta di disturbarle, è bene sempre creare apposta l’imprevisto, per osservare le reazioni, e per vedere in che direzione sviluppare la propria didattica con quel particolare gruppo di persone. Anche perché non lavoro con persone che sono costrette a venire a lezione. Le persone vengono da me se si divertono, se scoprono qualcosa di nuovo su di loro, se imparano sul serio qualcosa senza ripensare ai tempi della scuola e senza sentirsi in soggezione. E se non trovano un ambiente creativo, paritario, multiculturale sia verso l’italiano, ma anche verso il tedesco (e in classe non sono mai tutti tedeschi, ci sono sempre anche minimo polacchi, russi, francesi e inglesi), se ne vanno e io guadagno di meno (visto che è a ore di lezione e a numero di studenti che porto a casa uno stipendio). A volte come compito a casa chiedo agli studenti di elaborare un esercizio uguale a quello che abbiamo fatto in classe, di quelli con le frasette da completare, ma in tedesco, e io poi devo risolverlo la volta successiva in classe, davanti a loro, e poi devo dargli anche un feedback, di cui loro prendono nota e che poi a casa devono scrivere come ulteriore compito, usando il discorso indiretto. Accanto a tutto questo lascio sempre un motivo conduttore della lezione che sia prevedibile, in modo da non affaticare troppo nessuno. Ma poi disturbo apposta questo motivo conduttore e studio le reazioni. Facendo un gran misto tra glottologia, filosofia del linguaggio, psicologia e competenze interculturali.
E non è tutto rose e fiori, di conflitti se ne innescano a miliardi e a catena. Però va bene così, purché io raccolga il frutto tangibile di quello che ho trasmesso.
(…chiedo scusa per la fantasiosa definizione di studente monotemporale…)… Quando si presenta una situazione del genere è bene mettere ordine, e dare a ogni cosa il suo tempo. Lo studente disinvolto ha ragione, e lo invito per questo a fare un esempio pratico della regola allo studente monotemporale (e qui in genere lo studente disinvolto non è più tanto disinvolto, e capisce che forse c’è bisogno dell’intervento dell’insegnante, e se l’insegnante prima non è intervenuta e non ha bloccato lo studente monotemporale, capisce che ci sarà stato un perché che momentaneamente gli sfugge, ma di sicuro esiste). Dopodiché cerco di sondare le conoscenze in materia dello studente monotemporale. In genere mentre accade questo c’è già qualche altro studente che si fa avanti con le sue teorie. Quando mi sembra che si sia sollevata l’attenzione generale, e badando sempre al tempo che scorre veloce, domando se ha senso per tutti fare una digressione. Se ha senso procedo, e intervengo spiegando con dovizia di particolari e sempre esempi molto quotidiani e che possano tornare utili immediatamente la regola non a tutti chiara (e qui entra in gioco in genere anche la lavagna). Se la digressione in quel momento non è appoggiata dalla maggioranza, allora propongo allo studente monotemporale un pacchetto personalizzato di fotocopie mirate+un quarto d’ora di spiegazione a tu per tu (e lui verrà la prossima volta un po’ prima, o se ne andrà un po’ dopo, perché prendiamo proprio un appuntamento). C’è ovviamente anche il caso in cui, pur volendo la maggioranza la digressione, l’insegnante non la ritiene in quel momento opportuna. Per cui si promette un punto nel tempo in cui il determinato tema troverà una soluzione, e chi non è convinto può comunque scrivermi un’e-mail e ottenere più o meno subito quello che vuole, a suo rischio e pericolo (in tono scherzoso, ma mica tanto, perché a volte gli studenti vogliono a tutti i costi una regola che poi non sanno ancora gestire, ed è importante farglielo capire, ed è anche importante che l’insegnante non barcolli e sappia, speditamente e senza incertezze, quando la digressione ha senso e quando è troppo presto per farla. Personalmente sono convinta che sì, l’italiano è fatto di tante strutture complicate e agglomerate tra di loro. E se uno sente una frase con una struttura sconosciuta, per esempio in un film, deve poterne domandare spiegazione all’insegnante. Però ritengo che sia sempre meglio andare per livelli e non scavalcarli troppo, e oltretutto è anche una buona idea motivare questi livelli con i corsisti: per esempio è inutile che tu studente ora impari il periodo ipotetico se conosci solo il presente indicativo. Per il momento parla pure scorrettamente, a me interessa anche vedere cosa ti inventi per sopperire alla mancanza di quelle strutture che non hai ancora appreso, e cercherò di vigilare affinché la tua invenzione non si sedimenti troppo. Io intanto ti spiego a cosa corrisponde il periodo ipotetico nella tua lingua e nella tua grammatica, tu se vuoi memorizzi che quando senti quella determinata terminazione alla fine di un verbo, introdotto da quella particolare congiunzione, vuol dire che si tratta della struttura X e Y, e poi per imparare ad usarla c’è tempo, per ora è importante solo che smetta di inibirti o chiudendoti il cervello tutte le volte che la incontri!).
A parte questo mi chiedi, ladylink, come possano sapere gli studenti che una correzione ai loro errori sia in corso durante il mio turno del parlare emotivo, se mentre parlavano loro non è stato segnalato alcun errore… La risposta qui è la seguente: faccio sempre bene attenzione a raccontare qualcosa che è solo una versione un po’ diversa di quello che hanno raccontato loro. La situazione è più o meno la stessa, i vocaboli sono gli stessi, la successione con cui compaiono i vocaboli nel racconto è anche la stessa. Gli studenti ritrovano automaticamente ciò che hanno raccontato poco prima, e si rendono conto che il modo in cui uso le loro parole (che loro però credono mie) è il modo corretto. E a volte infatti chiedono da soli, se quello che ho appena detto non sia la stessa cosa che hanno detto loro poco prima, solo con una differenza grammaticale che vogliono gli venga spiegata. E c’è anche da dire che con la voce sottolineo le strutture che sono in realtà la correzione. Sottolineo e ripeto. Poniamo che lo studente abbia detto poco prima: ieri andavo al cinema e vedevo una film. Quando tocca a me parlare dico: anche io ieri SONO ANDATA al cinema… SONO ANDATA… e HO VISTO… SONO ANDATA & HO VISTO UN film. Un Signor film… Forse ripeto: è un modo un po’ pedestre di correggere… ma è uno dei modi che va ad integrarne tanti altri, e di solito funziona. Spesso giorni e giorni dopo parlo con uno studente e di colpo mi chiede: come hai detto l’altro giorno? SONO ANDATA E HO VISTO… Io dico sempre andavo e vedevo… cosa c’è di sbagliato? Io ho pensato che di sbagliato ci sia questo, questo, e anche quest’altro… tu cosa ne pensi?
Ladylink, tu dici: tutti chiudiamo un occhio durante la performance dello studente, ma un feedback sull’errore va dato? ma quando?
Se uno studente sta raccontando un’esperienza personale, è emozionato e fa degli errori, non lo interrompo ma memorizzo i suoi errori, cerco di annotarli discretamente (sorrido perché non sempre riesco ad esserlo, piuttosto li informo in anticipo)…
Io non posso annotare invece niente, se non in testa. Perché per mia scelta stabilisco un rapporto di parità tra me e gli studenti. Nel senso che io sono il conduttore della lezione (e non tanto l’insegnante. E c’è una differenza anche qui tra i termini in tedesco: Kursleiter: conduttore del corso, e Lehrer, insegnante. Al momento dell’iscrizione al corso gli studenti compilano un questionario e fanno una chiacchierata con gli insegnanti a disposizione, in modo che anche noi possiamo decidere in quale classe farli entrare. Durante questa chiacchierata si cerca di stabilire, più o meno velatamente, se ciò che vogliono è un conduttore del corso, o un insegnante. Perché c’è chi vuole essere imboccato un po’ passivamente nell’imparare una lingua, e c’è chi invece è parte molto attiva dell’apprendimento, contrastando, completando e integrando l’insegnamento con proprie nozioni. Siccome qui si lavora tutti in scuole private i corsi costano molto, ma molto, è d’altra parte giusto dare agli studenti, anzi ai clienti, anche quello che vogliono loro, e non solo quello che vogliamo noi!). Dicevo: io sono il conduttore della lezione, e non annoto niente, perché così darei un’impressione di controllo didattico che nessuno vuole (la nostra disperazione immensa con i libri di testo che trattano gli studenti come bambini è una cosa risaputa). Detto questo, a volte comunque il feedback riguardante il corretto uso di una struttura grammaticale, dopo un “errore” arriva subito. E a volte addirittura non da me ma dagli altri studenti. E qui bisogna andare cauti. Bisogna confermare o smentire l’osservazione dello studente che ha voluto notare davanti a tutti l’errore dell’altro studente, ma bisogna anche non demotivare né scoraggiare quello che ha fatto l’errore. Per me importantissimo è portare tutti i corsisti allo stesso livello di espressione orale. Perché se per esempio uno studente usa solo il passato prossimo quando parla, e un altro invece è già disinvolto nell’alternarsi di passato prossimo e imperfetto, nell’incoraggiare lo studente disinvolto scoraggio quello monotemporale (
Dopo aver testato dunque la capacità e la disponibilità emotiva di ciascuno studente con il gioco, ecco che si procede alla vera conversazione emotiva, o se vogliamo intima. Qui gli studenti, in classe, in corridoio, a mensa o al bar, mi raccontano quello che gli pare, sfruttando l’onda ancora alta dell’attivazione del vocabolario e del parlare spontaneo attivato dal gioco. Spesso raccontano situazioni simili a quelle che hanno vissuto nel gioco. O a volte raccontano di libri con storie simili che si sono trovati a leggere. Bisogna considerare sempre che gli studenti tedeschi adulti che imparano l’italiano, lo fanno soprattutto per distrarsi dal lavoro quotidiano, e lo fanno anche per trovare contatti in mezzo a gente che ha i loro stessi interessi. E questa credo sia una differenza rispetto a chi si trova in Italia permanentemente ed è quindi “costretto” a imparare l’italiano.
Che chiudere i quaderni non sia sempre giusto lo sostengo anche io, e infatti nelle prime lezioni, i primi vocaboli che imparano i miei studenti sono proprio i vocaboli che riguardano l’equipaggiamento con cui gli chiedo di venire a lezioni. Oggetto fondamentale dell’equipaggiamento è un quadernetto acquistabile dappertutto in Germania, molto esile, con una sessantina di pagine, di formato ridotto anche come dimensioni rispetto a un quaderno normale, e con le pagine divise da una riga al centro: il quaderno dei vocaboli. Questo quaderno gli studenti possono portarselo dietro sempre, non solo a lezione. E sono invitati a scriverci non solo i vocaboli trovati sui testi approcciati in classe, ma anche espressioni ascoltate da altri compagni, da me, viste sui giornali (la pubblicità tedesca è spesso piena di brevi frasi in italiano!), e soprattutto nel momento in cui ci si appresta ad appuntare i vocaboli e quant’altro, bisogna scrivere la data, e tutto quello che è utile a ricordare, a posteriori, quando è stata ascoltata o trovata l’espressione annotata. Prego gli studenti di fare questo, per un motivo (perdonate se possibile la commistione di discipline!)… per un motivo junghiano e de saussuriano. I miei studenti devono imparare l’italiano con un metodo (psicologicamente) SINCRONICO. Cioè tutto quello che imparano è da mettere in relazione, consciamente e inconsciamente, con il momento in cui è avvenuta l’esperienza, il momento in cui si sono raggruppati spesso caoticamente i vocaboli ascoltati, letti, detti. Il filo conduttore che tiene insieme i significati e il corretto uso di ciò che si impara è quindi necessariamente il flash-back, il ritorno con la memoria al momento dell’apprendimento, o meglio dell’immagazzinamento di quanto si è vissuto, imparato e detto. tutto quanto insieme. Per cui a volte capita che anche a mensa, parlando mentre si mangia e condividendo in italiano le esperienze -diciamo- emotive/private, gli studenti tirino fuori il quadernetto. Finché riesco a indovinare le loro intenzioni cerco però sempre di fare in modo che questo momento arrivi il più tardi possibile, cercando prima di far tornare a galla con mie domande mirate, quello che so che loro troverebbero in un istante nel quadernetto. E questa è la mia risposta alla tua prima osservazione. Ora passo alla seconda…
Cito la mia citazione (!!): (Tali errori vengono fuori soprattutto quando si lascia parlare gli studenti in modalità emotiva, quando cioé partendo da un tema si chiede loro di chiudere libri e quaderni e raccontare le esperienze personali, lasciando perdere completamente la disparità di livello linguistico tra me e loro.). Ladylink, tu mi domandi a che punto avviene la conversazione, diciamo—> emotiva. Avviene sì, dopo aver elaborato insieme un testo, in genere interattivamente. Faccio un esempio: si parte da una breve brano, poniamo di un romanzo della Ginzburg (ma potrebbe essere un qualunque altro autore). Nel brano vengono presentati i personaggi di una situazione, e la situazione, senza però lo “svolgimento” di tale situazione, e senza risoluzione. Una volta presentati i personaggi, analizzato il testo, visti i nuovi vocaboli, fatto un brain storming sui vocaboli che possono essere utili all’interno di questa determinata situazione nella vita reale (poniamo il caso: i vocaboli che servono a parlare di un divorzio), io affido a ogni studente un personaggio del brano, ogni studente diventa un personaggio. Poi si lanciano dei dadi, e con il lancio ogni studente si appropria di una carta. Sulla carta c’è scritto molto in generale (e premeditatamente in modo che le interpretazioni delle istruzioni siano varie e ampie) cosa deve fare il personaggio. Tutti gli studenti si ritrovano quindi a mettere in scena, improvvisando, la continuazione del brano che hanno letto, entrando nei personaggi del brano e comportandosi come, secondo loro, questi personaggi si comporterebbero. In genere Durante questo gioco di ruolo tutti sono “costretti” a partecipare e parlare, si abbandonano i banchi, ci si muove per la classe mimando anche, per quanto possibile le azioni. Da questa fase si esce in genere molto accaldati e con la testa completamente presa dai ruoli. Non è raro che studenti che hanno impersonato personaggi tra loro parenti e in buoni rapporti, alla fine della lezione vadano poi a casa insieme, e la volta successiva raccontino di essersi incontrati nel fine settimana e di aver portato avanti il gioco. Durante il gioco, in genere io sono un personaggio che nel testo non c’è. Un amico lontano di solito. Il mio compito è di telefonare (!) ai vari personaggi quando si trovano in panne, e brevemente suggerire loro una soluzione (un’azione, ma anche un vocabolo) che gli permetta di andare avanti. Altro non faccio.
Alla fine di tutto ciò, se necessario oltrepassando l’orario di lezione e proseguendo in un bar sotto scuola se è sera, o a mensa se è giorno (e bisogna dire che è anche per questo che gli insegnanti di lingua straniera non hanno una vita al di là di quella scolastica…) avviene finalmente la conversazione a libri completamente chiusi.
Eccomi qua, ciao Ladylink, rispondo volentieri ai tuoi commenti e non ti considero affatto pedante, ma semplicemente attenta, e questo mi fa molto piacere. Il tuo spunto di riflessione su “Che correttore sei?” lo avevo già letto. In effetti mi sto palesando solo negli ultimi giorni, ma è da almeno buoni quattro cinque mesi che leggo tutto il blog. Blog che ho trovato appunto cercando con un motore di ricerca interventi di Krashen in lingua italiana!
Il link per la lettura dell’estratto dal manuale di glottodidattica della Ciliberti lo avevo già presente, ed è ovvio che quando io scrivo “errore” in realtà bisognerebbe già cercare di capirsi su cosa si intende per errore, e qui le sfumature sarebbero già innumerevoli. Pragmaticamente (ma anche sempre sbrigativamente, visto che in tutto sono costretta spesso purtroppo a essere sommaria e imprecisa, vista la fretta) parto da qualcosa di pratico. In tedesco in genere ci sono due vocaboli per definire un errore: Irrtum e fehler. Irrtum è uno sbaglio basato su un malinteso. Fehler è invece un vero e proprio errore senza possibilità di appello, qualcosa che si fa risalire, nel senso del vocabolo, a una momentanea o permanente incapacità. Quando scrivo “errore” traduco il più delle volte il secondo vocabolo, ossia Fehler. E’ però un dato di fatto che nell’apprendimento di una lingua, molti errori, ossia l’uso improprio di nozioni grammaticali non avendole magari presenti al momento di parlare, danno origine anche a Irrtum, malintesi. faccio un esempio: tempo fa una studentessa mi raccontava del comportamento di un’altra studentessa, dopo che poco prima mi aveva parlato della relazione che c’è tra questa studentessa e un’altra persona. Nell’ansia del parlare (eravamo in piedi in mezzo al corridoio a lezione finita) la studentessa ha tradotto “Comportamento”—>Verhalten con il vocabolo “Relazione” (che in tedesco tra i vari vocaboli a disposizione si dice anche Verhaltnis). Io sul momento non ho capito bene cosa dicesse la studentessa, ho pensato che mi stesse appunto parlando di una ulteriore relazione che la compagna aveva con chissà chi altro. Solo dopo un po’ mi è venuto in mente che i due vocaboli tedeschi, Verhalten e Verhaltnis sono tra loro somiglianti, e alla studentessa non era chiara, appunto, questa differenza nella traduzione italiana, risolvibile con delle sub-regole che riguardano la terminazione dei sostantivi derivanti da verbi (e adesso sarebbe un po’ lungo spiegare tutto). Insomma: da un uso non corretto di una regola, anzi di una possibilità gestita dalla grammatica, è venuto fuori un malinteso. Dal Fehler (errore) quindi l’Irrtum (malinteso). Bene. Questo per quanto riguarda la definizione di errore, sbaglio eccetera, e anche per sottolineare il fatto che a volte mi muovo nella scelta dei vocaboli in queste discussioni che facciamo a partire dalla traduzione dal tedesco.
Nel prossimo post passo a parlare delle tue due osservazioni
Per quanto riguarda il commento a Krashen, vorrei aggiungere che il mio metodo di insegnamento lo sto mettendo alla prova, nel senso che credo sia un atto di responsabilità cercare di adattare le proprie credenze ed esperienze lavorative ad ogni nuovo contesto. Con il mio “team” di lavoro stiamo attualmente cercando di apportare modifiche notevoli al nostro lavoro quotidiano in classe e allora, questo continuo misurarsi con una realtà “nuova”, può anche voler significare, alla fine e dopo fatiche, essere sempre più convinti di quello in cui si crede…
Vorrei capire come Tindara intenda creare consapevolezza nello studente circa il nostro metodo, certo, gli studenti adulti hanno delle aspettative che se non frustrate ci salvano da una sommossa, quindi per mero tornaconto potrei dire: adesso facciamo questa attività così e cosà, ((già il perché lo accennerei introdotto da “per”+ infinito)non si coglie l’ironia, mi sa di no!)… ma poi basta e giusto nelle prime lezioni (oddio sono troppo burbera?)… anche perché, mia esperienza anche con gli studenti universitari, quando si abituano a fare una certa cosa, mi basta dire: “e adesso”… che loro già sanno cosa li aspetta!
Cioè intendo, non è che ci mettiamo a tirare fuori tecnicismi, no?
Sono d’accordo circa la fiducia reciproca, che deve/dovrebbe instaurarsi già solo per il fatto che siamo noi gli insegnanti. In questo sono sempre stata fortunata.
Siccome però lavoro con studenti intorno alla ventina, che ci tengono a tenermi informata sul gradimento o meno delle varie attività, ho elaborato le seguenti domande retoriche per quelli che si permettono di sbuffare: gli chiedo pubblicamente e con uno sguardo serio ma non severo o scocciato:
a) Scusa, chi è il professore? OPPURE
b) Sei tu il professore? (la domanda b) con il TU la capiscono meglio).
c) Vuoi venire al posto mio, così io mi riposo seduta e tu stai alla lavagna?
una volta sono anche arrivata a dire
d) il dipartimento cerca sempre insegnanti nuovi, perché non porti il tuo CV?
Vi assicuro che i ventenni, pur abbozzando un sorriso, abbassano lo sguardo e meditano… per diciamo… 10 minuti? Sono davvero terribili! E ammetto che ogni tanto penso: “Baaaaaaaaaasta”, ma dopo 10 minuti, passa tutto….anche a me
🙂
tranquilli sto per finire…
TIPI DI ERRORE A PARTE, IN GENERALE CREDO CHE sia normale che si verifichi questo:
(Poi racconto le mie esperienze, facendo però consapevolmente attenzione ad usare nel mio racconto ripetutamente proprio i vocaboli e le strutture che poco prima sono stati sbagliati dagli studenti. Gli studenti ascoltano e assimilano, e convinti di prendere parte emotivamente al racconto della mia esperienza, non si rendendono conto di stare assorbendo invece la correzione di ciò che loro stessi hanno detto.)
Perché se non sono mai stati segnalati degli errori, cioè se loro non sono stati avvisati che sono tali, non possono dare UN SIGNIFICATO PARTICOLARE alle parole dell’intervento dell’insegnante, che ascoltano emotivamente interessati, ma a loro non evocano altro…. loro prendono parte sì emotivamente, ma come possono sapere che sia una correzione?
Proprio poiché hai buona memoria e fa piacere allo studente notare che l’insegnante è attento, sarebbe interessante sfruttare la correzione degli errori in anticipo e siccome poi nonostante tutta la mia manfrina, comunque gli errori si ripetono, non solo singolarmente tramite correzione di produzioni scritte, ma coinvolgendo tutta la classe, CI SI FERMA, CI SI SOFFERMA nuovamente su un errore, per evitare una fossilizzazione, e lì allora potremo dire di riprendere quelle pagine e quel lavoro fatto nelle lezioni precedenti e ripasseranno sulle parole nuovamente…
MI SCUSO per essermi dilungata, ma ecco, era in atto una auto-riflessione ED ANCORA UNA VOLTA RINGRAZIO VALENTINA sia per essersi soffermata così tanto sul nostro blog (continua a farlo, eh!) sia per avermi offerto un’occasione per riordinare le mie idee…
beh! allora grazie a ildueblog per l’idea delle citazioni
Buon qualsiasi cosa!
Continuano a scorrere pensieri grazie alle parole di Valentina. Temo che mi dilungherò.
Valentina wrote:
(Parlando in una lingua straniera di qualcosa che coinvolge emotivamente, la soglia di vigilanza sulle strutture e sul vocabolario usati si abbassa notevolmente.)
ECCO, QUI mi trovo d’accordo, ma allora non facciamo chiudere il quaderno. Ribadisco: se lo studente arriva alla produziore orale dopo un determinato percorso, il filtro affettivo (ne parlò sempre Krashen) si abbassa.
QUANDO POI AFFERMI: (Finalmente diventa importante ciò che si racconta, e non come lo si racconta), diciamo che a livello di atti comunicativi sono d’accordo, nel senso che, è esperienza e c’è molta letteratura a proposito, a livello di atti comunicativi l’efficacia ha la meglio sull’accuratezza e tutti chiudiamo un occhio durante la performance dello studente, ma un feedback sull’errore va dato? ma quando?
Se uno studente sta raccontando un’esperienza personale, è emozionato e fa degli errori, non lo interrompo ma memorizzo i suoi errori, cerco di annotarli discretamente (sorrido perché non sempre riesco ad esserlo, piuttosto li informo in anticipo), ma il feedback arriva “subito”. Magari dopo che alcuni si sono espressi, annuncio che IN GENERALE SONO STATI PRODOTTI TALI ERRORI, in plenaria se ne parla o a gruppi ne parlano loro e una volta individuate le forme corrette, subito riutilizzo con esempi. Il prossimo gruppo dovrebbe, in teoria, riuscire a fare tesoro del feedback. (per quanto mi riguarda le strategie sono anche legate al numero degli studenti in classe)
Chi ha fatto l’errore probabilmente lo riconosce, e ne fa tesoro, ma non dico pubblicamente: TU M. HAI DETTO QUESTO, E’ SBAGLIATO, PERCHE’?
(segue :o)
Cari tutti e soprattutto Cara Valentina
prima di tutto grazie per l’impegno dei tuoi commenti!
I tuoi interventi, li ho letti attentamente e mi permetto di aggiungere delle mie riflessioni a proposito. Ci tengo fin da subito a precisare che la mia è una riflessione e non assolutissimamente una critica…
Attualmente con i miei colleghi stiamo trattando e cercando di gestire le fossilizzazioni dei nostri studenti. Il mondo della correzione degli errori, (o sono sbagli?) è molto vasto…e allora ho pensato anche di allegare due link sul tema…la lettura del primo è veramente interessante
* Da Manuale di glottodidattica, di Anna Ciliberti, http://elearning.unistrapg.it/dspace/bitstream/2447/53/1/ciliberti002.pdf
** Da una pagine dell’Università di Torino https://hal9000.cisi.unito.it/wf/DIPARTIMEN/Scienze_Le/Docenti/Pagine-per/Carla-Mare/Didattica-/ALCUNE-SOL/ALCUNE-SOLUZIONI-DELLA-PARTE-DI-COMM.doc_cvt.htm
Poi c’è un mio spunto di riflessione in un mio post “Che correttore sei?”, di qualche mese fa: https://www.ildueblog.it/?p=101
Parto citandoti, ci tengo a precisare che non vorrei essere pedante e che se forse ti ho presa troppo alla lettera, era in buona fede, perché appunto, è un argomento che mi sta toccando da vicino.
Ecco la tua citazione:
(Tali errori vengono fuori soprattutto quando si lascia parlare gli studenti in modalità emotiva, quando cioé partendo da un tema si chiede loro di chiudere libri e quaderni e raccontare le esperienze personali, lasciando perdere completamente la disparità di livello linguistico tra me e loro.)
Allora, quando scrivi questo vorrei sapere:
a) a che punto fai questa conversazione? dopo aver lavorato ad un testo e quindi dopo aver dato agli studenti un vocabolario, legato al tema, da riutilizzare in classe?
b) chiudere i quaderni. PERCHE’? forse tu intendi: esprimetevi liberamente, PERO’: 1) che tipo di attività hai impostato? è uno scambio tra te e loro..cioè tra te e i più spigliati? perché ci sarà sempre qualcuno che per timidezza o pigrizia, lascerà andare avanti gli altri più spigliati. Il divario linguistico tra l’insegnante e gli studenti non credo che li metta in imbarazzo, è talmente un dato di fatto!!! MA CREDO CHE sulla base del livello della loro abilità, tu debba saper, per dirla alla Krashen, calibrare l’input… E cioè, per come la intendo io, saper strutturare un percorso con determinate attività sul lessico, che portino gli studenti a “passare sopra il testo” più volte e con dinamiche diverse, in modo da aver familiarizzato con i termini e a poterli utilizzare poi di nuovo quando tu proponi una discussione in plenaria, ma anche questa deve essere ben strutturata.
E’ per questo che CHIUDERE I QUADERNI, non sempre è giusto, SECONDO ME. Perché è sui fogli e sui quaderni che lo studente ha lavorato a quelle forme e la conversazione non è una gara di memoria, ma appunto, avendo la possibilità di utilizzare quello su cui ho lavorato, mi sento libero e sicuro di esprimermi e forse anche di attivare la funzione del monitor, che posso far partire quando ho una coscienza di quello che è giusto o meno.
passo ad un seconda citazione (altro commento)
Valentina:io sono d’accordissimo con te, faccio miei tutti i tuoi pensieri e condivido l’esperienza perchè assolutamente gratificante tanto per l’alunno quanto per l’insegnante.
bellissima questa iniziativa citazioni.
p.
Ultima parte: Ciò che faccio è unire una regola grammaticale a un ricordo personale, a distanza di tempo. Il ricordo dello scambio di esperienze è ancora vivo, scatta di nuovo il fattore emotivo e lo studente è invitato a riflettere non solo su un errore grammaticale isolato in un battaglione di frasi impersonali da completare e pensate da un libro di testo, ma sul ricordo di qualcosa che lo ha coinvolto personalmente, di cui ha sentito il bisogno di parlare, e che, sorpresa, ha colpito anche l’insegnante che rivela inaspettatamente di ricordarsi con precisione di ciò che lui ha raccontato settimane orsono. Ed ecco che scatta allora oltre all’impulso emotivo, anche quello vagamente empatico. Portato a riflettere in questo modo, lo studente lega l’errore al ricordo, il ricordo di un’esperienza già conclusa e durante la quale ha parlato italiano con successo, riproducendo con l’italiano le proprie sensazioni e venendo completamente compreso dagli ascoltatori. Questa esperienza si trova nel passato e si è conclusa -ripeto- positivamente e non traumaticamente (come quando lo studente deve rispondere a una domanda, la risposta non gli viene, e la regola grammaticale grazie a questo microtrauma gli si cancella dal cervello o gli si inibisce per settimane e settimane…). Leggendo la nota scritta da me a margine, lo studente per prima cosa registra che io ricordo ancora con partecipazione il SUO racconto, fatto nel SUO ITALIANO e traducente la SUA esperienza personale. Lo studente registra consciamente la mia partecipazione emotiva. E solo inconsciamente registra la correzione. Correzione che entrando in circolo inconsciamente, aggira il monitor e viene sperimentata dallo studente -volontariamente, o meglio, spontaneamente- alla prima prossima occasione disponibile, la maggior parte delle volte con successo. Perché a tutti fa piacere sapere di essere stati ascoltati, capiti e ricordati, e non solo bacchettati perché ci si è espressi con un congiuntivo sbagliato mentre si aveva urgenza di trasmettere la sensazione provata quel giorno in cui ci si è caduti dalla bici a tre anni o ci si è tuffati da un trampolino molto alto per la prima volta. Io interpreto così, nella pratica quotidiana l’input e il monitor di Krashen. Mi piacerebbe però scambiare opinioni con qualcuno…
E scusate tutti per cortesia la lunghezza e l’imprecisione un po’ troppo pedestre del mio italiano.
valentina
Sì, l’ho letta. E già che mi ci trovo posto il resto del mio intervento qui sopra, che era troppo lungo per essere postato tutto intero:
Nel desiderio di essere capiti, gli studenti semplificano il vocabolario che usano per poter parlare più velocemente, anche se poi si intristiscono perché riescono a trasmettere solo sommariamente ciò che volevano dire, specie davanti a persone madrelingua. Un insegnante che però abbia degli studenti continuativamente sott’occhio, dovrebbe aver ben presente dopo un po’ tutte le loro difficoltà, o almeno i loro errori tipici. Tali errori vengono fuori soprattutto quando si lascia parlare gli studenti in modalità emotiva, quando cioé partendo da un tema si chiede loro di chiudere libri e quaderni e raccontare le esperienze personali, lasciando perdere completamente la disparità di livello linguistico tra me e loro. Parlando in una lingua straniera di qualcosa che coinvolge emotivamente, la soglia di vigilanza sulle strutture e sul vocabolario usati si abbassa notevolmente. Finalmente diventa importante ciò che si racconta, e non come lo si racconta. Io in questa fase smetto di correggere, mi limito a seguire il discorso e talvolta a interpretarlo. Poi racconto le mie esperienze, facendo però consapevolmente attenzione ad usare nel mio racconto ripetutamente proprio i vocaboli e le strutture che poco prima sono stati sbagliati dagli studenti. Gli studenti ascoltano e assimilano, e convinti di prendere parte emotivamente al racconto della mia esperienza, non si rendendono conto di stare assorbendo invece la correzione di ciò che loro stessi hanno detto. Dopo qualche settimana, correggendo normali compiti a casa scritti seguendo libri di testo vari, ogni qual volta si ripresentino gli errori che avevo notato nella “seduta dello scambio di esperienze”restituisco i compiti con delle note, in cui scrivo cose del tipo: “come quella volta in cui hai raccontato di esserti rotto la gamba, rompersi è usato in questo caso in modo riflessivo, l’ausiliare al passato è essere e non avere, eccetera eccetera…”.
Cara Valentina, non so se hai letto la chiacchierata con C. Humphris su Krashen, uno dei post più letti dell’intero blog.
Se non l’hai fatto te la consiglio. Qui: https://www.ildueblog.it/?p=63
…”Grazie” alla differita del Monitor si lasciano deprimere dagli scarsi risultati che hanno quando parlano improvvisando, quando cioè non hanno sotto mano vocabolari, quadernetto dei vocaboli, appunti e quant’altro.
Io ho escogitato un metodo: mi sono accorta che correggere gli studenti mentre parlano, oltre che bloccarli e ritardare ulteriormente la loro velocità di produzione orale (anche quando sono loro stessi a chiedere di essere corretti), li fa in definitiva “solo”diventare più attenti alla forma di quello che dicono, e quindi più cauti, e perciò più lenti, il che significa, a lungo termine, più frustrati. Ciò porta in alcuni casi al restringimento inconscio dei vocaboli che usano. Consapevoli del fatto che fanno errori, ma incerti sul come migliorare, tendono ad eliminare dai loro discorsi tutti quei vocaboli e quelle forme grammaticali che li rendono incerti e su cui vengono ripresi e corretti. Lo fanno perché per quanto vogliano loro stessi essere corretti da chi li ascolta, allo stesso tempo vogliono anche che l’ascoltatore faccia attenzione a loro, e questo “loro” è rappresentato da quello che dicono, e non da come lo dicono. Per dirla con parole povere insomma, gli studenti eliminano dal loro atto di comunicazione in una lingua straniera, tutti gli elementi che allontanano l’ascoltatore da una partecipazione emotiva. Il che li porta a limitare il coraggio nella sperimentazione.
Tutte le volte che penso a Krashen mi viene in mente per prima cosa il monitor, il sistema interno con cui lo studente elabora consapevolmente la lingua che impara. Consapevolmente e ostinatamente il monitor è molto presente nei (miei) studenti adulti che imparano l’italiano. Inconsapevolmente però, il monitor soffre di una specie di differita, per cui per quanto gli studenti elaborino in testa le regole grammaticali man mano che le imparano, e per quanto vogliano essere sul momento corretti quando fanno errori, non finisco mai di ripetere che nell’atto dell’improvvisazione del parlare una lingua straniera, tutto ciò che è in cantiere nel reparto monitor, fa capolino nel reparto improvvisazione con un minimo di ritardo di un paio di settimane, e un massimo di un paio di mesi. Molti dei miei studenti si dicono scoraggiati da questo fatto, e se lo spiegano con la convinzione di essere già troppo vecchi per apprendere elasticamente una lingua straniera.
Magari, visto che siamo su un sito in cui gli insegnanti di italiano mettono a confronto le esperienze, mi interesserebbe sapere come fanno gli altri a rassicurare e spronare gli studenti che “grazie” alla differita del Monitor (
” Bisogna tuttavia rendersi conto che è nostra responsabilità professionale insegnare secondo le proprie convinzioni riguardo a come si impara una lingua.”
E, aggiungo, sensibilizzare/istruire, per quanto è possibile, gli studenti-adulti anche sul nostro approccio, in modo che una maggiore consapevolezza da parte loro renda il processo di insegnamento-apprendimento e il rapporto di fiducia insegnante-apprendente ottimale.
Tindara Ignazzitto