Adam, profugo a 12 anni e un futuro senza certezza. Questa canzone è stata registrata da una volontaria di Medici Senza Frontiere. Adam chiese alla ragazza di poter cantare e, intonò questo brano che racconta la voglia di speranza dell’infanzia negata.
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Produzione libera orale…di parolacce
ATTENZIONE, Ladylink per la prima volta esprime delle opinioni non strettamente legate alla Didattica dell’Italiano ma al (mal)costume dell’Italia.
Merita un post la notizia che secondo la Corte di Cassazione dire a qualcuno VAFFANCULO, non è più un’offesa… “Ormai fa parte del linguaggio comune“, lo ha affermato la stessa Corte di Cassazione, non io, eh! La giustificazione è la seguente: “talune parole ed anche frasi che, pur rappresentative di concetti osceni o a carattere sessuale, sono diventate di uso comune ed hanno perso il loro carattere offensivo“… quindi il vicesindaco a cui è stato rivolto, se lo tiene e soprattutto se lo ricorderà ancora per un bel po’.
Scuola: rivoluzione vacanze
Calendario scolastico, rivoluzione dal 2008
“Estate più corta e tanti ponti nell’anno”
Elaborata da una commissione voluta da Rutelli, la proposta fra qualche giorno arriverà sul tavolo della conferenza Stato-regioni
Qui l’articolo da repubblica.it.
Cosa ne pensate? Largo alle opinioni (per una volta un tema leggero ed estivo visto anche il caldo di questi giorni…)!
Buongiorno
Segnalato da Cost nel post precedente, l’articolo è interessante.
Per rifare l’Italia nel mondo facciamo studiare l’italiano
di Federica Guiglia.
«Buongiorno», ha esordito in italiano il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, durante la conferenza-stampa a conclusione della sua visita a Roma. E lì si è fermato. Eppure, quel gesto non è stato soltanto un minuscolo segnale di cortesia. Come aveva poco prima ricordato Romano Prodi, «ho ringraziato il presidente Bush di alcuni atti simbolici di avvicinamento fra i due Paesi. Infatti la lingua italiana è diventata una delle lingue che possono essere liberamente scelte dagli studenti americani in tutte le scuole secondarie. E questo è un ulteriore passo per mettere insieme due Paesi anche quando il flusso dell’emigrazione è da lungo tempo esaurito».
Il presidente del Consiglio non ha aggiunto che la riscoperta dell’italiano in America risale agli ultimi dieci anni, almeno. Anni che hanno visto quasi il raddoppio delle iscrizioni ai corsi di lingua e cultura italiane. Ormai più di sessantamila studenti americani si cimentano oltre il «buongiorno» a cui è rimasto inchiodato Bush. E decine di Università americane hanno una loro sede in Italia. E cattedre d’italiano sono state aperte perfino in Alaska. A conti fatti, l’italiano è una delle quattro lingue straniere più studiate negli Usa. Ma soprattutto è la lingua che registra, insieme con lo spagnolo sull’onda della prorompente immigrazione latino-americana, il più forte aumento in proporzione rispetto agli inizi dello sviluppo. Anche perché per decenni, e nonostante la presenza di venticinque milioni di cittadini americani con origini italiane – e quindici di essi che ai censimenti si sono espressamente dichiarati «americani italiani» -, le istituzioni del nostro distratto Paese si sono disinteressate della cosa.
Dunque, la «politica della lingua» è ora strategica per il nostro Paese, e non è confortata soltanto dalla nuova primavera che la lingua di Dante sta vivendo negli Usa. Tra i blog l’italiano risulta il quarto idioma al mondo, secondo l’ultimo rapporto del motore americano di ricerca Technorati. Quarto nei diari in rete dopo, nell’ordine, il giapponese, l’inglese e il cinese. Cioè prima del pur diffusissimo spagnolo trainato dall’America latina. Prima del pur sostenutissimo francese dalle ben più consapevoli istituzioni di Parigi e prima del pur coccolatissimo portoghese grazie a uno Stato, il Portogallo appunto, conscio del valore nazionale e internazionale nell’organizzare una Comunità con tutti i Paesi portoghese parlanti.
Da Il Giornale – 12 giugno 2007
Giù le mani!
Interessante, interessantissimo articolo su La repubblica, che spero apra dibattiti sulla psicopedagogia e non solo.
Segnalato da Kappa.
Basta con la mano alzata in classe
“Penalizza gli scolari timidi”
LONDRA – Per rispondere alla maestra non si dovrà più alzare la mano. Non servirà più essere – spesso soltanto – più svelti e esuberanti. Molto meglio, per l’equilibrio psicofisico del fanciullo, “avere trenta secondi di tempo per pensare” e “potersi consultare con un compagno di banco prima di rispondere”. Sono le nuove direttive del governo Blair che è agli sgoccioli del suo mandato ma si preoccupa degli alunni delle scuole elementari del regno di Sua Maestà .
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c 6?
Su Repubblica.it è stato appena pubblicato un interessante articolo sulla lingua degli sms...
A Firenze un convegno organizzato dall’Academia della Crusca su un modo di scrivere comune, ormai, a tutta la popolazione. L’esperto: “La lingua italiana non è in pericolo”.
Ti dico tutto in pochi caratteri; così gli sms ci hanno cambiati
di Daniele Semeraro
ROMA – “Cmq sec. me se stas. c6è meglio così parl1po; se inv. nn c6fa niente”. Quasi nessuno avrà fatto fatica, oggi, a decifrare questa frase di 64 caratteri, che in italiano “normale” suona così: “Comunque secondo me se stasera ci sei è meglio, così parliamo un po’; se invece non ci sei non fa niente”. Quaranta caratteri in meno che nell’epoca degli sms e dei messaggi istantanei sul computer significano risparmio di tempo e denaro. Prima i “messaggini” erano una novità su cui si sono interrogati linguisti e sociologi; ora sono entrati nella consuetudine di tutti i giorni, e vengono usati praticamente da quasi tutta la popolazione, non solo dai più giovani. Addirittura è di pochi giorni fa la notizia che in alcuni paesi, come la Gran Bretagna, il numero di sms scambiati ogni giorno ha superato quello delle telefonate.
L’italiano negli USA
NEW YORK – “Quando il professore fece l’appello, il primo giorno, tutti si voltarono a guardarmi: il mio cognome era l’unico che non finisse con una vocale”. Università della Pennsylvania, anno 1956, Daniel Berger, ebreo newyorkese, è l’unico studente del corso di italiano a non essere figlio di emigranti.
Messico: la polizia spara sugli insegnanti
Questa la cronologia dei fatti fino alla sanguinosa repressione di ieri in cui hanno perso la vita due insegnanti:
Oaxaca, capitale dell’omonimo stato, Messico
22 maggio – 70.000 maestri entrano in sciopero per chiedere aumenti salariali.
14 giugno – il governo di Ulise Ruiz ordina una violenta repressione. Ci sono 92 feriti.
23 giugno – nasce la Appo (Assemblea Popolare dei Popoli di Oaxaca), composta da 350 organizzazioni sociali che solidarizzano con il movimento dei maestri e chiedono la dimissione di Ulises Ruiz. La Appo in appoggio agli insegnanti barrica la città .
27 ottobre – il presidente uscente, Vicente Fox decide di inviare reparti della polizia federale in appoggio alla polizia locale: 3.800 agenti, appoggiati logisticamente da 5.000 uomini dell’esercito, che rimuovono, con l’appoggio di mezzi blindati ed elicotteri, le barricate. Duranti gli attacchi vengono uccisi un cameraman di Indymedia New York, Bradley Roland Will, il professor Emilio Alonso Fabià n, e Esteba Ruiz, militante della APPO. Più di 23 i feriti. Dall’inizio dei disordini sono almeno 13 le persone, per lo piu’ maestri elementari, morte per mano di cecchini paramilitari.
28 ottobre – il subcomandante zapatista Marcos invia un messaggio di solidarieta’ ai manifestanti di Oaxaca: “Le strade sono bloccate dalla polizia – ha detto il leader dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) parlando a Chihuahua, nel Messico settentrionale – nell’aria non volano uccelli ma aerei dell’esercito. Il popolo e’ circondato e sente di essere solo, ma noi diciamo che non e’ solo, che lo appoggiamo”. Anche il leader del Partito della rivoluzione democratica (Prd) ed ex candidato sconfitto di misura alle recenti elezioni presidenziali. Andres Manuel Lopez Obrador, si schiera con i manifestanti della Appo sostenendo “inaccettabile e indegno” che il governo del presidente Fox continui a sostenere il governatore Ruiz, bollato di “antipopolare, sinistro e repressore”.
Il due blog esprime piena solidarietà ai colleghi insegnanti di Oaxaca.
La scuola dei miracoli
E’ uscito ieri su D – La Repubblica delle donne, un articolo con questo titolo. Il sottotitolo recita: “REGNO UNITO. E’ in un quartiere degradato di Londra. Ha 600 alunni, 120 disabili, 100 rifugiati. Tredici anni fa Millfields stava per chiudere. Oggi grazie a una geniale school manager è il fiore all’occhiello dell’amministrazione Blair. Ed è un modello invidiato all’estero.”
La scuola è la Millfields Community School, a East London. Tredici anni fa era in stato di abbandono, le risorse inesistenti, l’assenteismo del personale era superiore al 50%. Da allora la direttrice, Anna Hassan, ha totalmente ribaltato la situazione, creando un modello visitato e studiato da ministri dell’istruzione di Cina e Russia.
Nelle scuole elementari inglesi i risultati dei bambini vengono misurati con gli Standard Assessment Tasks or Tests (Sats). Lo scorso anno, oltre l’80% degli alunni della Millfields ha superato i test. E’ un risultato davvero incredibile, dico ad Anna Hassan, considerando che per oltre il 70% dei bambini l’inglese è la seconda lingua. Non solo, a scuola se ne parlano più di 40 diverse e oggi ben il 10% degli iscritti è formato da profughi o persone in cerca di asilo. Molti alunni provengono da famiglie indigenti. 300 hanno diritto alla mensa gratis e più di 120 sono “special needs”, cioè hanno bisogno di sostegno.
Eccola, la scuola del plurilinguismo a cui aspiriamo. La scuola che si fa agenzia di formazione. Ogni trimestre assume un certo numero di tirocinanti che desiderano partecipare al Graduate Teacher Program. I più bravi sono assunti come insegnanti non abilitati per un anno e partecipano a un training fatto da insegnanti esperti.
Paura di ghettizazione? La direttrice assicura: “da quando abbiamo dimostrato che il metodo dell’integrazione e della condivisione delle diversità ha successo, sempre più genitori della middle-class chiedono di poter iscrivere i propri figli qui. Il prossimo trimestre arriveranno soprattutto bambini della middle-class. Questo prova che abbiamo notevolmente migliorato i risultati accademici. Ma dobbiamo riuscire a mantenere un giusto equilibrio fra le famiglie provenienti dalle varie classi sociali.
Fioroni, dove sei? Qui l’articolo completo.
A ritmo di Rom
Il fatto: in una scuola elementare della provincia di Rovigo sono iscritti solo 19 bambini. Tutti Rom. Gli altri, gli italiani, piano piano negli ultimi due anni si sono spostati tutti altrove. I genitori italiani dicono che i rom rallentano l’apprendimento dei loro figli. L’Opera Nomadi si ribella e vorrebbe chiudere la scuola divenuta un ghetto.
L’articolo che racconta questa storia riporta cause e possibili soluzioni della vicenda, sperticandosi in parole vuote: “visione pedagogica”, “intercultura”, “multicultura”, “didattica”, “integrazione sociale”. Parole vuote non in sé, ma svuotate dal contesto in cui sono inserite.
Nell’articolo si cita una posizione che dice che la didattica interculturale “dà maggiore importanza ‘al processo sociale dell’apprendimento’ e fa corrispondere i tempi della classe a quelli del bambino più debole o più fragile: tempi interculturali”. Ma da dove viene questa idea? Se questo fosse vero i genitori dei bambini avrebbero tutto il diritto di tutelare l’apprendimento dei loro figli. Ma siamo alla follia. L’intercultura determinerebbe un gioco al ribasso nel ritmo della classe? E poi per quale motivo i Rom avrebbero dei “ritmi” più lenti? Genetici? Mi viene da pensare che si scambi per ritmo la distanza da cui partono queste culture nei riguardi della scuola, una distanza maggiore rispetto a quella dei bambini italiani, ma è una distanza, non un ritmo. La differenza è che la prima è colmabile, il secondo no: è un dato da tener presente per la vita.
Per favore, colleghi di Venezia e del veneto tutto dove siete maestri di queste tematiche, dite la vostra, fatevi sentire..
Un’ultima nota: non ho mai pensato che la responsabilità delle disfunzioni della scuola (compresi i problemi della classe, il mancato successo di una lezione, ecc.) fossero responsabilità di come sono fatti gli studenti. Da insegnante ho sempre pensato che se non sono riuscito è su me che devo lavorare, perché in una scuola dominata dalla diversità devo prima capire (o almeno provarci) e poi strutturare un’azione.
E invece in quest’articolo, nelle interviste ai vari responsabili non esce mai la parola “insegnanti”, mai la parola “strumenti”. Lo capisco: formare insegnanti in grado di affrontare una scuola davvero multiculturale è una visione iperuranica, costosa e al limite futuribile. Un’idea che può essere fonte di applausi in convegni, ma che non deve toccare nemmeno la mente di chi guarda da fuori certi fenomeni.
In fondo meglio un genitore inconsapevolmente razzista che una scuola che preferisce il razzismo piuttosto che affrontare i problemi in modo serio.
PS: Vorrei tradurre una frase dell’articolo che riporta il pensiero del sindaco del paese in questione a riguardo dell’impossibilità a chiudere la scuola: “Secondo Pizzi si tratta di garantire un servizio ai cittadini, tutelare l’identità locale e limitare i costi economici”. Ovvero: non rompeteci le balle, non abbiamo nemmeno un euro per il caffè.
Un ultimo pensiero va a quegli insegnanti che hanno deciso di rimanere a lavorare nella scuola: hanno la mia piena solidarietà e la mia stima, sarebbe interessante sapere loro cosa ne pensano della faccenda.