AUTORI: Pier Aldo Rovatti, Davide Zoletto
TITOLO: La scuola dei giochi
CITTà: Milano
EDITORE: Bompiani
ANNO: 2005
“Un pamphlet su come fare scuola”, così U. Galimberti l’ha definito sulle pagine delle Repubblica (19 aprile), lasciando intendere che il testo oggetto di recensione avesse una funzione propositiva, se non addirittura profetica.
Io non sono d’accordo. Il volume ha soprattutto una funzione di dichiarazione, di testimonianza.
L’opera si divide in due: da un lato le pagine che deliziano filosofi astratti (il ragionamento si traduce in giochi di parole; è la parte curata da Rovatti), dall’altra, un’analisi acuta e precisa dello status quo della scuola (è la parte curata da Zoletto). Ci concentriamo sulla seconda.
Che si voglia o che non si voglia, a scuola si gioca, dice Zoletto: studenti e insegnante hanno ruoli (inconsapevoli) di giocatori. In che senso? Nel senso che esiste un patto tacito, ovvero un “consenso operativo” che sta alla base del fatto che l’insegnante insegna e lo studente ascolta: “nessun adulto può interpretare la parte dell’insegnante se non c’è un allievo che cooperi a rendere quel ruolo riconoscibile e riconosciuto”. C’è, insomma, una “collusione”, termine che deriva dal latino e che significa “giocare insieme”. C’è uno stare al gioco da parte di insegnante e allievi che è tale anche quando l’insegnante non riesce ad insegnare perché gli studenti non vogliono ascoltare; “anche nelle situazioni di «circo», anche quando non riusciamo a «tenere» la classe, stiamo di fatto giocando un ruolo assieme agli altri […]. Il «circo» è anch’esso frutto di una collusione fra adulti e bambini, anche se, probabilmente, non piace a nessuno dei due”. Vale quindi la pena che l’insegnante si chieda “a che gioco si sta giocando” in classe, prima di mettere “fuori gioco” qualche studente.
Nella vita di classe ci sono sempre, dicevamo, delle regole, spesso implicite. L’esempio di una regola che l’insegnante è chiamato a seguire è quella dell’imparzialità: “Un insegnante non può farsi influenzare dalle sue inevitabili simpatie per questo o quell’allievo (un allievo non può essere cioè, nel game della classe, un individuo che piace o non piace, ma dev’essere sempre e comunque un piccolo d’uomo da educare)”. L’esempio di una regola che riguarda invece la condotta dell’allievo, è il fatto che è considerato inopportuno che uno studente disturbi compagni e insegnante con continue richieste di attenzione, dato che “come gli/le insegnanti non cessano di ricordare –e come imparano presto, e a proprie spese, i bambini appena inseriti nella suola dell’infanzia–, la socializzazione in classe può essere misurata dal grado in cui i bambini rinunciano a fare richieste del tipo “Guardami!” o “Guarda quello che sto facendo!”; e, viceversa, la non socializzazione è misurabile in base a una maggiore tendenza e insistenza dei riferimenti a se stessi”.
Ora, la regola delle regole, riprendendo il discorso accennato poc’anzi, sta nel fatto che dall’insegnante ci si aspetta che sappia più degli studenti (se così non fosse, i genitori ritirerebbero i figli da scuola) e che gli studenti imparino.
E’ ben vero però che il sapere di più da parte dell’insegnante diventa molte volte motivo di assoggettamento dell’altro: io so e se tu non sai, per il fatto che non ripeti quello che io ho detto e quindi sei «fuori dal gioco»! In questo gioco di potere, le regole sono così rigide da non permettere di giocare: i ruoli sono come cristallizzati: se sai, sai, se non sai, non sai; se sai, sei intelligente, se non sai, sei ignorante. Dice Poletto: “Quando si conosce già la risposta alla domanda che si fa, i giochi di potere e di sapere corrono maggiormente il rischio di bloccarsi in una situazione di dominio”. In altre parole, nel momento in cui un gioco si riduce a sole regole, e perde il suo altro lato caratteristico che è la libertà, e quindi il margine di imprevedibilità dei risultati, il gioco rischia di estinguersi: la classe langue, la motivazione cala, e si studia (o, meglio, non si studia) perché si deve studiare, perché si è costretti a studiare.
Un modello alternativo vede l’insegnante come ricercatore più esperto tra altri ricercatori; il suo sapere non è il fine da trasmettere ma il mezzo mediante il quale si potenziano e sviluppano le abilità degli allievi. Secondo questa prospettiva, si riconosce sì il valore della programmazione, del curricolo, dei contenuti, ma pur sempre nell’accettazione di quel margine di imprevedibilità che è insita nel gioco; il fatto cioè che non tutto sia padroneggiabile, definibile, e che quindi non si possa decidere a tavolino come e quando mettersi a giocare ma si debba essere sempre pronti a ridefinire le regole del gioco. Per certi aspetti è come dire: non si può imparare a giocare a comando: “se nella scuola dei giochi pensiamo di poterci affidare solamente a un metodo, cioè a una strada che ci porti da qualche parte, ci troveremo alla fine in un’aporia. Non andremo cioè, letteralmente, proprio da nessuna parte. E non farà alcuna differenza che il nostro metodo sia basato sul gioco e sul giocare”.
Ci dispiace quindi, anche sul finale, contraddire la lettura di Galimberti, che scriveva a caratteri marcati: “L’istruzione deve essere ludica. E’ il parere di Pier Aldo Rovatti e di Davide Zoletto”. No, non si tratta di introdurre nella scuola una serie di attività piacevoli e divertenti, che prima non c’erano. Si tratta, piuttosto, di creare un spirito di ricerca e di rigore intellettuale sin dalle elementari e fino all’università –che può certo trasmettersi anche tramite attività ludiche, ma non ne è vincolato. Se così è, insegnanti e studenti non giocano più gli uni contro gli altri, ma gli uni con gli altri contro le regole, per definirle e ridefinirle nei mille modi possibili che l’esperienza di volta in volta “insegna”.
Insomma un pamphlet sull’intelligenza, la quale è appunto una tra le forme più caratteristiche del gioco –coinvolta tanto nei giochi di potere quanto nei giochi economici, tanto nel giocare con i sentimenti quanto nel giocare in borsa del broker più spietato…
Recensione a cura di Piroclastico
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