Entrammo ad Aiello, all’ora del primo rancio. In testa, era il mio battaglione, il 3^, che marciava con la 12^ compagnia in testa.
La 12^ era comandata da un ufficiale di cavalleria, il tenente di complemento Grisoni. Egli era stato ufficiale d’ordinanza del nostro comandante di brigata. Morto questi, in seguito ad una ferita da granata, egli era voluto rimanere nella britaga e prestava servizio di cavalleria, non poteva essere assegnato ad un reparto di fanteria; ma il comandante generale della cavalleria gli aveva accordato un’autorizzazione speciale, con il diritto di conservare ordinanza e cavallo. Egli era conosciuto in tutta la brigata. Il 21 agosto del ’15, con quaranta volontari, aveva attaccato di sorpresa e conquistato il <<dente del groviglio >>, solida trincea avanzata, difesa da un battaglione di ungheresi. L’azione era stata di un’audacia estrema. Ma egli era divenuto celebre per un’altra impresa. Una sera, mentre stavamo a riposo, dopo aver bevuto e frammischiato, senza eccessiva misura, alcuni vini di Piemonte, a cavallo, era penetrato, egualmente di sorpresa, nella sala di mensa, in cui pranzava il colonnello con gli ufficiali del comando di reggimento. Egli non aveva pronunciato una sola parola, ma il cavallo, che sembrava conoscere perfettamente le strategie militari, aveva lungamente caracollato e nitrito attorno al colonnello. Per questo fatto, diversamente apprezzato, poco era mancato che non fosse rimandato alla sua Arma.
Il battaglione sfilava, al passo, di fronte alla piazza del municipio. Là, erano il comandante della brigata, il comandante del reggimento e le autorità civili della città.
La compagnia in testa, per quattro, marciava, marziale. I soldati erano infangati, ma quella tenuta da trincea rendeva solenne la parata. Arrivato all’altezza della autorità, il tenente Grisoni si drizzò sulle staffe e, rivolto alla compagnia, comandò:
-Attenti a sinistra!
Era il saluto al comandante di brigata.
Ma era anche il segnale convenuto perché il 1^ plotone entrasse in azione. Immediatamente, si svelò tutta una fanfara accuratamente organizzata. Una tromba, fatta con una grande caffettiera di latta, squillò il segnale d’attenti cui rispose l’accordo degli strumenti più svariati. Erano tutti strumenti improvvisati. Abbondavano quelli che facevano maggior chiasso per accompagnare il passo. I piatti erano rappresentati da coperchi di gavetta. I tamburi erano avanzi di vecchie ghirbe di salmeria, fuori uso, sapientemente adattate. Pistoni, clarini e flauti erano ricavati dai pugni chiusi, in cui gli specialisti, aprendo ora un dito, ora l’altro sapevano soffiare nelle forme più efficaci. Ne risultava un insieme mirabile di musicata allegria di guerra.
Il comandante di brigata s’accigliò, ma infine sorrise. Uomo ragionevole, non trovò sconveniente che soldati, vissuti nel fango e nel fuoco tutto l’anno, si permettessero un simile svago, per quanto non regolamentare.
Emilio Lussu, Un anno sull’Altipiano.
Ora, i giovani d’oggi, per i quali la Grande Guerra è più lontana della luna, in questo libro trovano quello che i testi scolastici non dicono, quello che i professori non insegnano, quello che la televisione non propone. E nemmeno il cinema. Uomini contro non è Un anno sull’Altipiano. Un giorno a Roma, dopo aver visto il film con lui e Rosi, mentre lo accompagnavo verso piazza Adriana, mi disse come seguendo un suo pensiero: <<… tu lo sai, in guerra qualche volta abbiamo anche cantato…>>.
Ed è cantando Quel mazzolin di fiori, mentre sale per la prima volta sull’Altipiano in quel giugno del 1916, che la Brigata Sassari incontra i profughi che hanno abbandonato le loro case alla furia della guerra: <<… La nostra colonna cessò i canti e si fece silenziosa…>>. Il resto è scritto nelle pagine che seguono e che resteranno sempre nella storia della nostra Italia.
Mario Rigoni Stern, Prefazione all’edizione del 2000